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Iniziò da Vermicino la “Tv del dolore”

Nel giugno 1981 la tragedia di Alfredino. La Rai, per prima e senza premeditazione, creò un modello televisivo. Oggi, più che mai, la “tv del dolore” sfrutta il gusto voyeuristico di dettagli macabri e retroscena spaventosi.

Iniziò da Vermicino la “Tv del dolore”
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Marcello Cecconi Modifica articolo

12 Giugno 2023 - 12.47


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In questi giorni del 1981 tutta l’Italia viveva l’incubo di Alfredino; lo strazio del bambino caduto e, dopo quasi tre giorni d’inutili tentativi di salvataggio, morto in quel pozzo artesiano di Vermicino. Tutti lo ricordano. Nella prima decade di questo mese ci sono stati tre femminicidi. Vi vengono a mente i nomi delle tre giovani donne uccise? Di sicuro vi ricordate immediatamente di Giulia e non solo del nome ma anche del volto, degli occhi e anche del profilo del suo ventre gravido e poi straziato.

Se invece vi dico delle altre due povere ragazze oggetto dello stesso fanatismo machista?  Pierpaola e Maria Brigida. Niente, sono sicuro che dovete arrangiarvi su Google. Potenza dei media di ieri e di oggi. Oggi e ieri, dunque. La “tv del dolore” è ormai una pratica diffusa alla quale fanno ricorso tutti i format televisivi delle varie reti pubbliche e private, per fare audience da monetizzare per lo spazio pubblicitario. Tutto questo iniziò proprio con la terribile storia di Alfredino, la prima diretta televisiva che trasmetteva un dramma.

E in quegli anni non fu certo per una battaglia di share fra tv pubblica e privata perché le piccole televisioni locali non avevano i mezzi sufficienti e l’appena nato Canale 5 doveva attendere la legge Mammì del 1990 per un Tg in diretta. Allora Berlusconi doveva accontentarsi di mandare in onda I sogni nel cassetto di Mike Bongiorno e la serie Dallas. E nemmeno i social esistevano ad ampliare l’eco mediatica di quella tv degli Ottanta. Insomma fu il servizio pubblico nazionale con sede a Roma, quello del canone obbligatorio, ad impegnarsi per primo e, forse inconsapevolmente, nella “tv del dolore”. “Volevamo vedere un fatto di vita, e invece abbiamo visto un fatto di morte. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo, 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi” disse imbarazzato Giancarlo Santalmassi, conduttore del Tg1 del 13 giugno.

La Rai, facilitata dalla vicinanza dell’evento e sfruttando a rotazione le tre reti per una durata complessiva di 18 ore, catturò l’attenzione di circa 21 milioni di persone. Erano rimaste per ore davanti al televisore per seguire l’altalena tragica delle emozioni della diretta che passava continuamente da Rete 1 a Rete 2 e poi a Rete 3 (come si chiamavano allora). Fece completamente dimenticare per molti giorni il pur grande rimbombo mediatico dello scandalo P2. Fu una “MaratonaMentana” bella e buona ante litteram.

Ovviamente di come i media, la tv in questo caso, sia capace di rappresentare una realtà e di come “rappresentare una realtà” sia cosa diversa dalla realtà, non si riflette troppo. Per non confondermi e non confondervi non sto tentando di affermare che quello che si vede in tv siano bufale, ma che quando Vermicino ti arriva tramite la tv è una realtà “manipolata”.

Manipolata nel senso che la percezione che il nostro cervello elabora davanti allo schermo è condizionata dal modo di fare e selezionare le inquadrature che ci arrivano, dal modo di registrare e selezionare suoni, grida, pianti, rantoli, parole, e dal volume con cui questi ci arrivano. Perciò la percezione dell’evento doloroso di Vermicino davanti allo schermo non può essere uguale a quella dei diecimila curiosi che erano lì sugli “spalti” e che da soli selezionavano il loro “guardare”.

Poi la tv ci ha preso gusto affinando queste tecniche di “manipolazione” per appuntamenti fissi di narrazioni in grado di rappresentare le attuali e sempre più numerose storie torpide e omicidi efferati. E quando questi non sono sufficienti a riempire il palinsesto, si risvegliano quelle storie antiche quasi con gusto voyeuristico ricostruendo casi con esperti criminologi che son diventati star della tv. L’obiettivo centrato, mi pare, soddisfare la fame nello spettatore, e quando non c’è generarla, di dettagli macabri e retroscena spaventosi.

Ma se molti sociologi della comunicazione ci dicono che il problema non è più che “cosa ci fa la televisione” ma “cosa facciamo noi alla televisione”, allora la domanda da farsi è il perché siamo attratti da storie che parlano di dolore e morte invece di spengere il televisore o cambiare canale.  Forse la risposta da dare è la stessa che dovremmo darci quando un talk-show dove gli ospiti vengono alle mani ha il picco di visione nel momento topico dell’alterco e quando ricordiamo tutto della povera Giulia e niente di Pierpaola e Maria Brigida.

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