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Bassani alla maturità: perché il suo “Giardino” è un capolavoro snobbato

Chi era lo scrittore scelto per una delle tracce dell'esame? Un grande autore, che ha subito ostracismi. E che fu presidente di Italia Nostra

Bassani alla maturità: perché il suo “Giardino” è un capolavoro snobbato
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20 Giugno 2018 - 15.28


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Per una delle tracce del primo giorno dell’esame di maturità la commissione ha scelto un brano da “Il giardino dei Finzi Contini”, il romanzo di Giorgio Bassani pubblicato nel 1962 da Einaudi. Lo spunto sono le persecuzioni razziali nel libro a 80 anni dall’emanazione delle leggi razziali fasciste contro gli ebrei, nel 1938.

 

Enzo Verrengia

Inutile percorrere tutto Corso Ercole I d’Este a Ferrara in cerca del Barchetto del Duca. Non c’è più fin dal 1944, quando vi si insidiarono quelli che oggi vengono definiti squatters, abusivi. Allora si chiamavano sfollati, «appartenenti a quello stesso misero sottoproletariato cittadino, non dissimile dalla plebe delle borgate romane». Lo scrive Giorgio Bassani all’inizio de Il giardino dei Finzi-Contini, elegia insuperata della memoria, del sentimento, della Storia che si abbatte sull’esistenza di ognuno con un carico di crudeltà e insensatezza.
Quanto al romanzo, vale ad esaltarlo l’oleografia per lo schermo ricavatane da Vittorio De Sica nel 1970, con il luciferino Helmut Berger che pure riesce delicatamente calarsi nell’efebica caducità del giovane Alberto e la maliziosità tutta francese di Dominique Sanda prestata all’ineffabile Micol. Tutto commentato dalle musiche di Manuel, il figlio del regista, con l’inserimento finale del Kadosh, il canto religioso ebraico dell’ultimo respiro. Nel più bel libro di Bassani, e fra i migliori della letteratura di tutti i tempi e tutte le latitudini, si può ripercorrere in un’unica soluzione il romanzo di Ferrara al completo. «Ed è lui» scrive dell’autore Anna Dolfi «in fondo, l’artista as a young man, il protagonista assoluto del libro, quello che rilega l’uno all’altro ogni personaggio, ogni vicenda.»
Bassani è più che dimenticato, oggi. Obliterato da un palinsesto letterario nazionale che diviene ogni giorno di più mostra delle atrocità, per citare un titolo di James Ballard. Lontano da quest’ultimo per temi e stile, Bassani però serba come il collega inglese una capacità di scrittura che trascende i luoghi, l’occasione e l’epoca per entrare nel novero della perennità. Logico che fosse temuto dai novellini dell’improvvisazione culturale italiana, che ha devastato gli anni ’60 e le decadi successive.
La vendetta contro Bassani
Nei suoi confronti, poi, si consumò certamente una vendetta. Fu Bassani a far pubblicare da Feltrinelli Il Gattopardo, rifiutato dall’intangibile Vittorini. Né gli si perdonò di avere proposto ai lettori italiani Jorge Luis Borges, Edward Morgan Forster, Ford Madox Ford, Karen Blixen e Il dottor Živago di Boris Pasternak. L’avversione politica per Bassani ha soverchiato quella stilistica fino alla cancellazione dell’uomo e della sua opera, che pure certosinamente lui rivide per intero dal 1978 al 1980. In quel periodo Bassani serbava ancora integre le facoltà intellettive. Successivamente, fu travagliato da un’infermità che in famiglia provocò spiacevoli contenziosi, allo stesso modo di quanto avvenne per Alberto Bevilacqua. Adesso, invece, s’impone di prospettare un culto incondizionato per Bassani, che lo riporti nell’agone del dibattito, o meglio rivitalizzi il dibattito, strappandolo alla solitudine postuma delle sue spoglie, sepolte nel cimitero ebraico di via delle Vigne, a Ferrara.

Un contributo anche architettonico
Della città, Bassani non fu solo il rifacitore in prosa. A questo si limitarono Joyce per Dublino, Svevo per Trieste, Dickens per Londra e innumerevoli narratori per i rispettivi luoghi dell’anima. Il contributo di Bassani al suo territorio fu anche architettonico. Lo ha riconosciuto Vezio De Lucia, il massimo urbanista italiano. La sua Ferrara è l’ennesimo scrigno di bellezza edilizia di cui abbonda la penisola. La devastazione del giardino dei Finzi-Contini da parte degli sfollati è segnalata all’inizio del romanzo con l’acredine che si riserva alle profanazioni. Parole che acquisiscono un valore profetico nel secondo decennio del XXI secolo, dinanzi alle riprese degli antichi monumenti assiro-babilonesi distrutti dai fondamentalisti. Anche la Ferrara di Bassani subiva un destino analogo per via di certe contingenze che si accompagnano a tutte le guerre. Le quali, per lui, si accentrarono tutte nell’ombra cupa della shoah che si allungò sulla cerchia eletta del suo cuore.
Presidente di Italia nostra per tutelare la memoria
Acquisisce un significato inscindibile dalla sua produzione letteraria la presidenza di Italia Nostra, che fondò nel 1955. Per lui non si trattava di tutelare il paesaggio meramente fisico, ma la geografia della memoria. Quella che assume i tratti dei suoi personaggi, non solo i Finzi-Contini. Lida Mantovani, Elia Corcos, Geo Josz, Clelia Trotti, Pino Barilari… «Chi sono?» s’interroga sempre la Dolfi. «Borghesi, i più, grossi e piccini, come la stragrande maggioranza della Ferrara novecentesca. Eppure per elezione personale o per decreto del destino, ciascuno di costoro si sente, ed è, diverso dall’ambiente circostante. E per ciò ne risulta escluso, irreparabilmente».

L’inclusione antropologia e l’esclusione caratteriale è un binomio che ritorna in tutti i grandi autori, codificata nel «natio borgo selvaggio» di Leopardi. Ora succede l’esatto contrario. Sembra obbligatorio aderire alla propria collocazione, culturale, linguistica e territoriale. Alcuni dei nomi più orribili usciti dall’apocalisse letteraria italiana contemporanea sono paladini dei gerghi locali e quindi autoreclusi in un provincialismo che attecchisce anche al centro delle patetiche metropoli peninsulari, condannate al degrado dalla cementificazione metastatica prima che dai flussi migratori, interni ed esterni. Bassani, al contrario, celebra le singole diversità, nicchie precluse all’ordinarietà, quando non volgarità estranea. «L’interna felicità dava spinta alle sue gambe affaticate, misura e precisione ai suoi gesti, calma ai battiti del suo cuore. Era davvero un tesoro quello che aveva dentro. Immenso, sì, inesauribile, e nondimeno da tenere segreto, nascosto a qualsiasi persona al mondo. Tutta la sua allegria, tutta la sua pace, derivavano dalla certezza di esserne l’unico proprietario.» È Edgardo Limentani, il protagonista de L’airone, il cui «tesoro che aveva dentro» non corrisponde ad una pulsione di vita bensì di morte, perché consiste nella decisione del suicidio. Eppure ciò che conta di lui è ancora una volta la specificità rispetto agli altri.
Rimodellare Ferrara
Ogni artista rimodella la realtà nelle proprie creazioni. Bassani intendeva rimodellare Ferrara lungo le linee del sublime. La città estense rasenta il natio borgo selvaggio di Leopardi. Non a caso, quando lo scrittore prese le distanze dalla pellicola di De Sica, si scrisse che era più bassanianamente simile al Giardino dei Finzi-Contini il capolavoro di Luchino Visconti, Vaghe stelle dell’Orsa, dal titolo leopardiano.
Ma quella diversità dell’autore rispetto alla sua stessa città, che in Limentani si “risolve” nel suicidio ha risvolti tragici nello stesso lungo e sofferente crepuscolo di Bassani. Ettore Scola lo raffigura nemmeno troppo occultamente in La terrazza, con il personaggio interpretato da Serge Reggiani, che si lascia morire per anoressia. Bassani, come lui, era stato alto dirigente della Rai, allontanandosene. Lo stesso fece da un Psi crocevia di lottizzazioni, trasformismi e da ultimo tangenti. Sembrava che per lui non vi fosse una riconoscibile identità culturale al di fuori di quella letteraria, peraltro vilipesa dal Gruppo ’63. Forse anche per questo cominciò la dissolvenza interiore di Bassani, culminata nella morte allo scoccare del millennio. Ormai era da tempo impossibile trovare nelle librerie dei nuovi romanzi che reggessero il paradigma dei suoi. Rieditarli serviva poco nell’incedere di un nuovo pubblico sempre più stordito dalla canea dei “casi”, best-seller ad alta percentuale di spazzatura. Il concorso di colpa dell’elettronica non bastava a spiegare l’arretramento della lettura al grado zero della ricettività. Bassani proponeva un’epopea sommessa nei toni ma titanica nella densità. Che affondava nella melassa editoriale impiastricciata di cascami.
Il romanzo di Ferrara è patrimonio dell’umanità, nonché di quell’Italia Nostra che Bassani fondò per un atto d’amore allargato. La sua riproposta oggi, agli esami di maturità, assolva dall’ennesimo peccato la società parodisticamente profana che è diventata questa nazione. Oggi che la politica d’accatto vuole impadronirsi e svendere una parola che può appartenere soltanto a figure come quella di Bassani: narrazione.

 

 

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