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Perché i conflitti che insanguinano l'Africa non possono esserci estranei

L’ultimo volume di Mario Giro Guerre nere. Guida ai conflitti nell'Africa contemporanea era necessario per meglio comprendere le ragioni dei conflitti africani di negli ultimi decenni.

Perché i conflitti che insanguinano l'Africa non possono esserci estranei
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28 Dicembre 2020 - 11.54


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di Antonio Salvati

L’ultimo volume di Mario Giro Guerre nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea (Guerini e Associati Milano, 2020 pp. 240, 22,50 euro) era necessario per meglio comprendere le ragioni dei conflitti africani sviluppatisi negli ultimi decenni. Una guida indispensabile – non solo per esperti o addetti ai lavori – realizzata con l’intento non solo di descrivere le vicende di numerosi terribili conflitti africani, alcuni dei quali ancora in evoluzione e in pieno svolgimento. Il tentativo dichiarato dell’autore, politologo e conoscitore come pochi di questioni africane, non è solo quello di redistribuire e indicare le responsabilità in maniera più equa tra i vari protagonisti (visibili o nascosti) dei conflitti che insanguinano il continente africano, «ma soprattutto di dimostrare che la natura stessa di quelle guerre non ci è estranea ma è il risultato di molti apporti e delle trasformazioni provocate dalla nuova epoca che stiamo vivendo tutti».

In Occidente da troppo tempo siamo abituati a concepire l’Africa come a un universo a sé stante, non aperto ai mutamenti, caratterizzato da lentezza, quasi a ritroso della storia. Certamente non innovatore. In realtà, avverte Giro, sta accadendo l’esatto opposto: «l’incontro con il presentismo sfrenato della globalizzazione e con quell’istante che tende a dominare il tempo lungo produce un effetto catastrofico su società che hanno difficoltà ad adattarsi e che sono già state investite da mutamenti calamitosi nel recente passato». Le società europee tendono a chiudersi per proteggersi dagli effetti violenti di una globalizzazione che non risparmia nessuno, reagendo con rabbia e autodifesa, «quelle africane non ne hanno i mezzi (sia in termini istituzionali che di risorse sociali) e sono costrette ad accettare di attraversare senza tutele tale brutale dinamica». Gli africani, spossessati della loro cultura antica, delle loro lingue, della terra e alla fine di ogni identità, «sono paradossalmente più pronti di altri a divenire il modello dell’uomo e della donna della globalizzazione, senza radici o appartenenze a fare da filtro. È in Africa che l’umanità stessa diviene oggetto nella sua forma più asciutta e dura, piegandosi ai comandamenti del mercato o, come si diceva una volta, al “vangelo della competitività”. Nel continente nero prospera indisturbato il modello più basico di neoliberalismo, quello che non fa differenza tra mercato legale e traffico e che non si accompagna a nessuna forma di garanzia».

Per anni abbiamo pensato che solo l’Asia fosse il terreno propizio per la cultura della globalizzazione con popoli abituati al lavoro, in cui l’individuo è sottomesso alla produzione. In realtà, l’Africa oggi rappresenta l’esito della globalizzazione senza regole «come meglio non si potrebbe. Non si giustificherebbero altrimenti i ripetuti fallimenti della comunità internazionale a dare delle regole a questa fase: in realtà non le vuole nessuno. L’esempio forse più estremo di questa situazione è quello in cui la logica del mercato assieme alla controversia sull’identità si sposano senza contrasti nel jihadismo islamista, cosa che non avviene in nessun’altra parte del globo, almeno per il momento, con altrettanta chiarezza».

Da alcuni anni l’Africa è tornata ad essere al centro degli interessi del commercio globale, sia per le materie prime che per le infinite possibilità economiche che offre, inclusi i traffici illeciti. Questo spiega le cause di molti conflitti e crisi che hanno devastato il continente e continuano a tormentarlo. Quante e quali sono oggi queste guerre? All’inizio del volume Giro riporta i dati del Conflict Barometer che ci informa per il 2019 di 23 crisi non violente, 45 violente, 8 guerre territorialmente “limitate” e 5 di ampia portata. Queste ultime sono: la guerra in corso nella Repubblica Democratica del Congo; quella contro i jihadisti nel Sahel; quella contro Boko Haram in Nigeria, Camerun, Niger e Ciad; l’annoso conflitto somalo. Se si confrontano questi numeri con quelli degli anni precedenti, una caratteristica emerge con chiarezza: i conflitti africani tendono a cronicizzarsi più che a moltiplicarsi. Sono più o meno sempre quelli, da anni. In realtà, le radici dei conflitti sono più locali e localizzate di quanto si pensi: povertà e bassa remunerazione del lavoro; risorse naturali e questione della terra; esclusione sociale e relazioni tra lignaggi e generazioni. Le diseguaglianze socio-economiche e territoriali possono combinarsi con le rivalità etniche e religiose, scaricando le tensioni sul piano politico. Poche volte mettono in discussione i confini tracciati dal colonialismo: «la caratteristica conflittuale africana è intestina, intra-statale e apparentemente etnica. Rari sono gli scontri tra Stati e rarissimi i tentativi di strappare pezzi di territorio altrui: in buona sostanza le frontiere stabilite sulla base delle delimitazioni coloniali resistono e vengono accettate senza problemi», spiega Giro. Con poche eccezioni: Eritrea, Sud Sudan e il contenzioso tra Fronte Polisario e Marocco nell’ex Sahara Spagnolo.

Acute le analisi sul fenomeno dei «signori della guerra» (warlordismo, da warlord), risposta socio-antropologica alla decomposizione della società tradizionale. È il caso complesso della Repubblica Democratica del Congo ma anche del conflitto ivoriano, ampiamente descritti nel libro. Una questione decisiva è quella della privatizzazione della guerra avvenuta anche in Africa. Nella maggior parte dei casi, i protagonisti dei conflitti non sono gli eserciti regolari, ma i contractor e le milizie private che assoldano giovani, “cadetti sociali” (gli ultimi della scala sociale) che, in tempi di crisi e grandi trasformazioni, per emergere in una società che non li considera, troppo spesso prendono le armi. Giro ci aiuta a comprendere come sia stato possibile per milizie, ribellioni, e in qualche caso anche eserciti ufficiali, continuare a «vivere di guerra senza la guerra», trasformando i «gruppi armati in bande dedite ad altri tipi di traffici o con funzioni di provider di sicurezza, sempre pronti però a tornare a rivestire le sembianze e le ragioni originarie».

Come in Medio Oriente, anche in Africa il prodotto «islam radicale» e jihadista può essere analizzato quale grammatica della rivolta per giovani senza più etnia e famiglia, espulsi dalla società tradizionale che non ha più nulla da offrire loro, proprio come è avvenuto parallelamente in altri ambiti religiosi. Fenomeno che l’autore ha ben tratteggiato in altri volumi. Tale «neo-islam» – analizza Giro – sviluppa frequentemente profonde contraddizioni interne nella società musulmana: «divide le famiglie, si oppone alla tradizione ed è spesso considerato un devastatore della società. In sostanza la scelta per le armi dei giovani africani dipende dalla necessità di trovare un diverso ordine sociale dentro il caos, assieme alla scoperta di una nuova via per emergere in una società che non li considera più. È il destino dei «cadetti sociali» (gli ultimi della scala sociale) in tempi di crisi e di grandi trasformazioni». Arruolarsi con i seguaci di Boko Haram o simili raggruppamenti con al Qaeda nel deserto del Sahara diviene l’opzione valida laddove non c’è altra prospettiva. L’unica alternativa rimane altrimenti l’emigrazione.

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