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Contro l'islamo-fascismo non servono lamentele anti-migranti ma riflessioni coraggiose

Accanto alla mobilitazione e solidarietà per le vittime occorre anche capire che tipo di realtà questi efferati delitti ci stiano mostrando: se essi sono un sintomo o un effetto di cambiamenti sociali e culturali

Contro l'islamo-fascismo non servono lamentele anti-migranti ma riflessioni coraggiose
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Marcello Flores Modifica articolo

31 Ottobre 2020 - 10.52


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Per la seconda volta in pochi giorni la Francia piange dei suoi cittadini uccisi dal fanatismo dell’islamismo fondamentalista, quello che molti, a Parigi, chiamano con una sintesi dubbia ma efficace islamofascismo. Le modalità di questi assassinii sembrano mostrare che alla fase degli attacchi terroristici ispirati e sollecitati da Al Qaeda e poi dall’Isis stia subentrando adesso una logica di individualismo frammentato e difficilmente controllabile, che trova grazie all’odio filtrato dai social i propri obiettivi e l’aiuto organizzativo per porre in atto i propri crimini.

La reazione della Francia non può restare isolata, deve coinvolgere tutta l’Europa, anche se si può nutrire qualche dubbio sull’efficacia di una politica di difesa della laicità giocata spesso sulla base dei simboli o delle petizioni di principio. La Francia ha tra i suoi cittadini milioni di musulmani, che appartengono ormai ad almeno quattro generazioni che si sono succedute e convivono non sempre facilmente tra loro. I «radicalizati», appartenenti o meno ad alcune chiare tendenze religiose (salafismo, wahabismo) o politiche (Fratelli musulmani) sono in genere giovani e giovanissimi, il cui odio per le società occidentali dove hanno scelto di vivere – spesso per sfuggire a situazioni materiali intollerabili – è quello che permette loro di sopportare la discriminazione di cui sono spesso oggetto anche i cittadini da tempo integrati pienamente.

Accanto alla reazione, alla mobilitazione, alla solidarietà per le vittime, alla battaglia coerente per la difesa a oltranza della libertà religiosa (in tutti i suoi aspetti) e della libertà d’espressione (in tutte le sue forme), come aveva cercato di fare in nome della democrazia e di una visione pedagogica aperta che si dovrebbe onorare il professore Samuel Paty – cui ogni paese, ogni città, dovrebbe dedicare una scuola spiegando il perché agli studenti  – occorre anche cercare di capire, però, che tipo di realtà nuova questi efferati delitti ci stiano mostrando: se essi sono un sintomo o un effetto di cambiamenti sociali e culturali in corso o già avvenuti, se è necessario cambiare strategia di attenzione e di risposta rispetto al passato o continuare sulla linea degli ultimi anni.

Per gli italiani è difficile immedesimarsi nella realtà francese, ma occorre uscire dalle lamentele anti-migranti e affrontare la questione come si pone in Francia e anche in Gran Bretagna o in Olanda, dove il numero dei cittadini di fede islamica è maggiore e dove sono state date risposte diverse e spesso divergenti.

Già sulla questione del «velo», che era esplosa anni fa come epicentro del rapporto identitario tra «cristiani» e «musulmani», le rispose francesi e inglesi erano state di segno opposto. Tanto la strategia multiculturale britannica quanto quella laica della repubblica francese hanno mostrato profondi limiti e sostanziali fallimenti. È il momento di affrontare una riflessione coraggiosa, che non cerchi scorciatoie o capri espiatori, che non cada nella logica del consenso, ma che possa prefigurare quale può essere il futuro di società – anche le nostre occidentali – che sempre più saranno percorse da tensioni che sono da decenni frequenti (e per noi invisibili o quasi) in tante contrade dell’Africa o dell’Asia.

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