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«Ragazzi, sentite l’audio del prof»: imparare via internet, ripensiamo a don Milani

Antonio Salvati, docente in un istituto a Roma, illustra la sua esperienza positiva di e-learning ma rileva come anche l’accesso a internet misuri la disparità sociale

«Ragazzi, sentite l’audio del prof»: imparare via internet, ripensiamo a don Milani
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31 Marzo 2020 - 16.13


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Nuova puntata sull’insegnamento a distanza a causa delle chiusure delle scuole per il Coronavirus. Stavolta chi scrive è Antonio Salvati, che insegna nel centro di formazione professionale all’Ente Nazionale Don Orione a Roma oltre a collaborare con globalist. Il suo articolo segue gli interventi di altri due docenti alle superiori, Paola Gherardi (clicca qui) e Annalisa Filonzi (clicca qui), e il servizio sui professori di storia dell’arte all’università (clicca qui).

di Antonio Salvati

Migliaia di docenti stanno continuando a lavorare da casa, cercando di garantire umanità e cultura a una fetta così rilevante della nostra popolazione. Ci tocca oggi un compito importante: tenere vive le relazioni, non permettere che le nostre comunità si sfilaccino, non lasciare soli oltre otto milioni di bambini e ragazzi ma garantire loro il contatto con i coetanei e con degli adulti di riferimento.

Con alcuni colleghi, in questi giorni, è riemersa l’antica discussione tra e-learning e scuola in presenza, quasi fossero contrapposte ovvero l’una sostitutiva dell’altra. In realtà, non è così. In parte lo sapevamo e oggi lo verifichiamo, in questo tempo inedito, con maggior intensità. Anche se resta evidente che nessuna educazione a distanza potrà mai sostituire la complessa e ricca rete di relazioni significative che si creano nelle classi in presenza.
Stiamo sperimentando che il digitale non è necessariamente deriva di isolamento. Lo può essere, ovviamente, talvolta lo è. Ricordiamoci che stiamo utilizzando strumenti che, come tali, facilitano e velocizzano la sostanza che si modellano alle intenzioni di chi li utilizza. Se l’intenzione è la socialità, la rete aiuta molto.

La prima preoccupazione delle insegnanti della scuola dell’infanzia e della primaria è stata di non far percepire ai propri bambini e alunni che le loro maestre fossero lontane, che i loro visi e le voci si potessero dimenticare. Una mia cara amica maestra, non particolarmente avvezza allo strumento informatico, mi ha raccontato i suoi modi di salutare, davanti alla web camera, i suoi allievi con filastrocche (grazie anche ai libri di Rodari, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita) e la sperimentazione di modi nuovi che arrivano ai bambini attraverso la necessaria mediazione degli adulti, considerata l’età, in una forma di scuola in cui insegnanti, genitori (o più spesso nonni!) e alunni convivono.

Nelle superiori, dove insegno, la scuola digitale era in buona parte già consuetudine. I miei allievi si sono ritrovati in classi virtuali nelle quali, anche nella lezione più classica, la dimensione della relazione ha prevalso sulla materia di insegnamento (anche con molte telefonate decisamente affettive), non fosse altro per la consapevolezza solidale – aspetto da non trascurare – del momento in cui si colloca. Conservo chat di whatsapp affettuose e divertenti, spesso scritte in dialetto o quanto meno con poca attenzione alla forma: «nu riesco a vedè i suoi compiti su we school», «Prof ma se le scuole non riapriranno ce verremo tutti promossi», «Rega sentitelo è un audio del prof, abbiamo fatto un gruppo con lui per qualsiasi cosa scrivete qui», «Dobbiamo solo legge??», «Finché non siamo tutte online su zoom non possiamo fare la lezione» et similia. In tal senso, i famigerati gruppi WhatsApp (non solo quelli dei genitori, ansiogeni o presuntuosamente polemici), si sono trasformati in scialuppe di salvataggio, permettendo a tanti di sperimentare che il legame con la scuola, che rappresenta tanta parte della loro vita affettiva e relazionale, non era spezzato.

Tuttavia, meno di un mese di didattica a distanza è stato sufficiente per mostrare come la scuola italiana possa essere classista e come la forbice si sia ampliata in pochi giorni tra i Pierini e i Gianni (prendendo a prestito il riferimento alla Scuola di Barbiana di Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana; nel testo scritto da don Lorenzo Milani con i suoi allievi, “Pierino i ragazzi appartenenti alla classe sociale più elevata mentre Gianni simboleggiava i ragazzi più poveri), facendo riemergere varianti classiche, come il censo e il livello di istruzione familiare. I dati Istat del 2019 ci informano che solo il 76,1 per cento delle famiglie dispone di un accesso a internet. Verosimilmente un quarto degli studenti non ha la possibilità di partecipare a momenti di didattica a distanza con strumenti idonei.

Dopo anni di presunti e artificiosi “compiti di realtà” da inventare e moltiplicare per valutare le competenze degli allievi, ci troviamo di fronte ad un altro compito di realtà: quello di sperimentare se sia possibile costruire nell’emergenza una scuola per tutti, che provi a non discriminare nessuno. Con una sottolineatura importante: l’uso poco esperto delle piattaforme tende a privilegiare una didattica tradizionale fondata su lezioni frontali, mentre per costruire una didattica a distanza davvero interattiva c’è bisogno di saper mescolare, in maniera creativa, competenze tecniche ed esperienza pedagogica, abilità non comuni.

Qualcuno ha parlato del virus come di un’odierna “livella”, ricordando Totò. Ma non è così, avverte Stefano Pasta, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Non lo è tra gli Stati che hanno sistemi sanitari diversi tra loro e conseguenze diverse sulla popolazione e non lo è nelle nostre scuole. Se questa situazione ci mette tutti dinanzi ad alcune domande di fondo, non ci rende tutti uguali. In un momento in cui emerge il valore dello Stato sociale e del servizio sanitario nazionale – ossia che protegge tutti, compreso chi non potrebbe permettersi le cure – ricomprendiamo – spiega Pasta – «l’importanza anche della scuola, in quanto prima agenzia educativa del Paese, e come i ritardi vengano pagati da tutti, ma specialmente da chi ha meno risorse a cui attingere».

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