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Tra Tolstoj e Wilde, Salvati ci ricorda gli scrittori contro la pena di morte

La letteratura può molto per il diritto e per rifiutare la condanna capitale. Ne racconta la storia il libro “La penna e la forca”

Tra Tolstoj e Wilde, Salvati ci ricorda gli scrittori contro la pena di morte
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28 Agosto 2020 - 12.04


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di Rosalba Segatori

Letterati di un certo rilievo e non, soprattutto a partir dagli inizi dell’Ottocento, hanno attraverso le loro opere assunto posizioni contro la pena capitale. Per Jacques Derrida la storia della letteratura europea degli ultimi tre o quattro secoli «è contemporanea e indissociabile da una contestazione della pena di morte, da una lotta abolizionista ineguale, certo, eterogenea, discontinua, ma irreversibile e tendenzialmente mondiale, come storia congiunta, una volta in più, della letteratura e del diritto e del diritto alla letteratura». Di questa storia ne dà conto Antonio Salvati con il suo ultimo libro La penna e la forca. Scrittori e pena di morte, suggestioni letterarie per il rifiuto della pena capitale (Intrecci Edizioni, 2020, pp. 386, € 25), un’antologia “orientata” di 46 autori che nell’Ottocento e Novecento hanno contribuito con i loro scritti all’affermarsi della coscienza abolizionista.

Nella letteratura – sottolinea l’autore – «convergono tutti i grandi problemi suscitati nella mente umana dalla condizione mortale. Una cultura letteraria non posticcia, ma accurata e meditata, pone al centro l’esperienza umana e giova a costituire una mentalità comprensiva nei riguardi di tutti gli aspetti, dalla virtù all’abiezione, della persona dell’uomo». Con la letteratura si affrontano temi come Dio, la mortalità, il tempo, il significato della vita. Il romanzo possiede un alto valore conoscitivo. Dagli inizi dell’ottocento inizia a diventare un genere egemonico, uno strumento di conoscenza e di verità. Il romanzo classico – intendendo con esso tutte le forme narrative che hanno avuto nell’Ottocento la massima fioritura con Stendhal, Balzac, Dickens, Dostoevskij e Tolstoj – possiede un fascino immenso. Leggendo Il rosso e il nero, Guerra e pace, L’idiota, ci sentiamo sempre toccati. Per chi si occupa di diritto e giustizia, queste letture – avverte Salvati – «non possono che esercitare un interesse irresistibile. Si tratta di letture e di topoi politico-filosofici, pregni di quesiti sfidanti per il diritto e nei quali tema della giustizia è una costante pietra d’inciampo, una domanda insistente, un traguardo tanto difficile fa raggiungere quanto decisamente necessario. Filosofia e romanzo appartengono a due dimensioni diverse. Se può apparire eccessivo affermare che il romanzo arriva là dove non arriva la filosofia, non siamo lontani dal vero nel sostenere che la filosofia (e la disciplina giuridica) sarebbe più povera senza il romanzo e che tanti grandi romanzieri, anche inconsapevolmente, hanno saputo gettare uno sguardo totale sulla realtà, sul mondo. Come la filosofia e le scienze umane, la letteratura è conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo». La realtà che la letteratura vuole conoscere è semplicemente l’esperienza umana. Dante e Manzoni, ha osservato Todorov, ci insegnano sulla condizione umana «quanto i più grandi sociologi o psicologi e che non esiste alcuna incompatibilità tra la prima e la seconda forma di sapere». Può la letteratura – si chiede l’autore – calarsi nelle profondità di un abisso incommensurabile fino a far comprendere l’orrore della pena di morte?

Nadine Gordimer disse: «la mia narrativa è più vicina alla verità di tutta la saggistica che scrivo». Scrivere è spesso un dono e un talento innato, ricorda Salvati. Il tipo di intuizione di uno scrittore, il potere della narrativa, dell’immaginazione di trasmettere al di là della superficie della vita qualcosa di più profondo, non è facile spiegarlo. Gli scrittori nascono con un’eccezionale capacità di osservazione: sin dall’infanzia guardano le persone, le cose, la vita, se stessi in modo incessante e piano piano cominciano a interpretare certi tratti, certe scene che non sono ovvie, che non sono in superficie. Procedono per intuizioni e così si riescono a creare personaggi che sembrano più reali delle persone note ai lettori.

Molti autori sono straordinariamente persuasivi proprio per l’efficacia della loro arte, nella quale si esprime compiutamente la potenza delle loro idee, della loro passione civile. Il teologo Oliviér Clément sosteneva che l’espressione artistica «ci risveglia. Essa ci cala più in profondità nell’esistenza. Fa di noi degli uomini e non delle macchine. Rende solari le nostre gioie e laceranti le nostre ferite. Ci apre all’angoscia e alla meraviglia». La letteratura consente a ciascuno, ricorda Todorov, «di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano», grazie alle “sensazioni insostituibili” che ci procura. «La letteratura, per la sua capacità di comunicare e trasmettere conoscenza, sa cogliere più intuitivamente quello che altre elaborazioni di pensiero sono più lente a formulare compiutamente», spiega Salvati. Lo storico Carlo Ginzburg cancella la distinzione tra narrazioni storiche e narrazioni di finzione. Vede le une e le altre in competizione nella “rappresentazione della realtà”. Se una ricostruzione storica è indiziaria, il romanzo è una miniera di tracce utili al racconto del vero, è un libro di storia a tutti gli effetti. Inevitabilmente tra letteratura e storia c’è dunque una frizione, che spesso rende ardua la ricerca della verità: senza la storia la letteratura è destituita di fondamento, ma senza letteratura la storia non può raccontare la vita.

Il rapporto tra sistema penale e letteratura è indubbiamente ricco e articolato. Molti poeti e letterati, toccando i temi del diritto e della pena di morte (Tolstoj, Dostoevskij e Wilde) hanno espresso l’auspicio che gli istituti giuridici, affinché possa aversi una giustizia più umana, recepiscano un’etica e una cultura del perdono perché emerga fortemente l’immagine di una giustizia che sappia portare in sé il segno di ciò che è altro rispetto al male commesso, ricucendo i rapporti piuttosto che reciderli. Queste preoccupazioni, al fondo del pensiero di diversi autori, ci mostrano che i giuristi possono imparare dai letterati: l’insegnamento che molti scrittori possono dare ai giuristi consiste nell’indicazione che troppo spesso le istituzioni giuridiche ottengono il risultato opposto a quello che si prefiggono, che la difesa della certezza del diritto e della dignità dell’uomo deve essere oggetto di una continua e gelosa attenzione, e che è cosa assai difficile costruire il diritto, soprattutto quello penale, in modo che sia realmente a misura dell’uomo.

La letteratura è una indispensabile risorsa di senso per l’umanità del nostro tempo. E’ una bussola per la vita, sostiene Tolentino De Mendonça, «uno strumento prodigioso di lettura dell’esperienza individuale e collettiva, storica e interiore, nella sua dimensione particolare come in quella universale». Abbiamo bisogno della letteratura, non come una sorta di ornamento estetico, bensì come di una sua struttura portante, un codice di sopravvivenza del nostro stare al mondo.

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