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La scrittrice afroamericana Margo Jefferson: «Il razzismo non è finito»

In una intervista l’autrice  di “Negroland” spiega perché esiste il razzismo: «Il “diverso” mette in crisi e spaventa, quindi bisogna mortificarlo o distruggerlo». E ricorda il genocidio dei nativi americani

La scrittrice afroamericana Margo Jefferson: «Il razzismo non è finito»
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18 Giugno 2020 - 13.25


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Il 19 giugno gli afroamericani celebrano la fine della schiavitù negli Stati Uniti come il “Freedom Day”. “Diventi una festa nazionale”, dichiara in un’intervista ad Antonio Monda sulla Repubblica di oggi 18 giugno la scrittrice Margo Jefferson, autrice del memoir autobiografico sulla condizione dei neri della borghesia Negroland (66thand2nd editore, p. 270, € 16,00, anche in ebook, traduzione di Sara Antonelli). Alla domanda se il “Juneteenth”, come Margo Jefferson e molti altri chiamano questa data, dovrebbe diventare festa nazionale, l’autrice risponde di sì senza esitazioni e spiega: «Segna un momento fondamentale nella storia di questo Paese e ricorda i due anni passati dalla fine effettiva della guerra al momento in cui Granger proclamò la fine della schiavitù. Quei due anni sono il simbolo del tragico ritardo con cui la gente di colore è costretta a vivere dopo esser passata sotto l’abominio della schiavitù. È il simbolo del ritardo con cui un intero popolo ha accesso a un’adeguata sanità, agli alloggi, al lavoro». E osserva con amarezza: «Il razzismo non è sconfitto».

Alcuni Stati e aziende celebrano la ricorrenza (clicca qui per la notizia), ma cosa accadde il 19 giugno 1865? La guerra tra forze abolizioniste della schiavitù e confederali del sud terminò pochi giorni dopo, il 23 giugno 1865. Per arrivare alla concreta abolizione ovunque passeranno alcuni mesi, ma quel 19 giugno le truppe federali arrivarono a Galveston, in Texas, per far rispettare l’ordine di emancipazione e il generale Granger proclamò la fine della schiavitù. I “due anni” a cui si riferisce Margo Jefferson sono storia: dal primo gennaio 1863 doveva essere in vigore il proclama del presidente Abraham Lincoln che liberava tutti gli schiavi negli Stati confederati d’America (non riguardava quinti tutti gli Stati).

Poiché gli Stati Uniti incidono fortemente nei costumi, nella cultura e nella politica occidentale, poiché il razzismo è una malapianta che cresce anche da noi, siccome gli schiavi esistono tuttora (e sono coloro che lavorano quasi gratis, spesso in condizioni disumane), la data diventa significativa al di là della storia nordamericana.

Sempre a Monda Margo Jefferson allarga il discorso a qualunque razzismo in qualsiasi luogo, sintetizzando quindi perché non è una faccenda che riguarda solo gli Usa: «Il discorso si può estendere a ogni forma di pregiudizio. È una costante eterna dell’uomo: il “diverso” mette in crisi e spaventa, quindi bisogna mortificarlo o distruggerlo. Ciò purtroppo è vero a ogni latitudine: qui fa più impressione perché il Paese nasce su una promessa di accoglienza e integrazione. Purtroppo penso che non vedrò la fine del razzismo, né forse la vedranno i nostri figli: ci vorrà molto tempo e il nostro compito è quello di tenere alta la tensione su un tema morale, prima ancora che politico». Un compito fondamentale spetterebbe alla scuola statunitense che a suo parere andrebbe riformata e dove gli studenti dovrebbero studiare sia la storia della schiavitù sia «il genocidio dei nativi».

Negroland è uscito nel 2015 negli Usa e intreccia alla questione razziale fattori tutti interconnessi nella vita sua e di molte altre donne e molti altri uomini quali la politica, i diritti civili, il femminismo, la storia. Così la casa editrice italiana riassume il libro: «Negroland non è Harlem a New York, né Bronzeville a Chicago, è un’enclave senza confini geografici, protetta da benessere e privilegi in un paese segnato dai conflitti razziali. Negroland è “l’élite di colore”, una classe nascosta tra le pieghe di una nazione che ha creato il mito della società senza classi. È un microcosmo regolato da un’etichetta minuziosa, ossessionato dalla perfezione, in cui si bada alle tonalità della pelle, alle forme dei nasi, a lozioni, parrucche e capelli. Figlia dell’alta borghesia nera, Margo Je Verson ha il lignaggio ideale per demolire una dopo l’altra le nostre convinzioni sulla “razza”, trasformandola in un concetto mutevole in cui si intrecciano lingua, genere, censo, ingegno e ambizioni personali. E per riappropriarsi fin dal titolo di una parola diventata tabù – “Negro”, con la N maiuscola –, in cui vibrano ancora, sedimentati sotto strati di significato, i proclami per i diritti civili, le taglie sugli schiavi fuggiaschi, gli scritti di W.E.B. Dubois e James Baldwin. Il risultato è un “lessico famigliare” intessuto di illuminanti digressioni storiche: sui lasciti della segregazione, sul Black Power, ma anche su Lena Horne e Donyale Luna, feticci glamour di un’epoca passata, sugli schiavisti neri, sui film di Audrey Hepburn, sugli “esercizi di suicidio” delle ragazze di Negroland. Perché questo è un memoir sorprendente, sincero, con cui l’autrice si propone, come fanno Claudia Rankine e Ta-Neishi Coates, di ampliare e ridefinire i contorni di una nuova coscienza afroamericana».

Margo Jefferson, attualmente docente di scrittura alla Columbia University School of the Arts a New York, ha vinto un premio Pulizer come critica del New York Times. Ha scritto un saggio, molto lodato, su Michael Jackson (66thand2nd editore, pp. 160, € 15, traduzione di Sara Antonelli).

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