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Quell'antica tentazione di 'educare' le donne

Le cronache sono piene di pareri su come le donne dovrebbero vivere, curarsi o non curarsi le rughe, i capelli e le pance, a quale ora sarebbe meglio che uscissero e con chi e vestite come

Quell'antica tentazione di 'educare' le donne
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Gabriella Piccinni Modifica articolo

10 Novembre 2021 - 17.09


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Scorro le cronache di questi giorni e le trovo piene (non che sia una novità) di pareri su come le donne dovrebbero vivere, curarsi o non curarsi le rughe, i capelli e le pance, a quale ora sarebbe meglio che uscissero e con chi e vestite come, con quanta spavalderia o mitezza sarebbe utile che si muovessero nel mondo se desiderano avere successo, in un elenco infinito di indicazioni, consigli, giudizi e precetti ricorrenti, peraltro anche abbastanza noiosi. Poi, come spesso in questa rubrica, provo a guardarmi indietro, in cerca di spunti. 

E vedo che almeno dal XIII secolo una serie di teorici dei rapporti sociali gettano le basi della pedagogia femminile, scrivendo anche una serie di opere didascaliche rivolte alle giovanette. Ci sono testi che spiegano come attrarre gli innamorati e, molti di più, che insegnano come prepararsi a prendersi cura dei mariti, tracciando le linee guida per il tirocinio di una buona moglie. Esistono anche testi di provenienza religiosa, come certi libricini preparati per le donne pie e trasmessi, come le ‘bambole sante’, da donna a donna, da madre a figlia. 

Eppure sbaglierò, ma le adolescenti mi sembrano più impegnate a sfuggire alla presa di madri carceriere per affacciarsi alla finestra, ossessione dei moralisti, che non a leggere questi trattati che mi sembrano perciò destinati soprattutto a suggerire agli adulti codici di comportamento verso di loro. 

Le cose che una donna deve saper fare sono elencate in lunghi e noiosi mansionari. Paolo di Pace da Certaldo, ad esempio, nel XIV secolo, ricorda al buon padre che è opportuno insegnare alla figlia a “fare tutti i fatti de la masserizia di casa, cioè il pane, lavare il cappone, abburattare e cuocere e far bucato, e fare il letto, e filare, e tessare borse franceschi o recamare seta con ago, e tagliare panni lini e lani, e rimpedulare le calze”. 

L’elenco delle abilità dovute agli uomini è collocato nel quadro di una serie di regole che educano le ragazze ad accettarle, quando con la minaccia di punizioni fisiche, quando prospettandone il valore morale, quando con l’ammaliante dolcezza di una seducente intimità.

Le ménagier, il maturo borghese parigino che, alla fine del Trecento, insegna l’arte del matrimonio alla moglie che, quindicenne, nel tepore delle lenzuola della loro prima settimana di matrimonio gli ha chiesto – glielo aveva forse suggerito sua madre? – di usare “una benevola indulgenza verso la sua giovinezza e la sua insufficienza e ignoranza nel servirlo”, è un buon marito che ama guardarla mentre coltiva i fiori e balla o canta e non alzerebbe mai le mani sulla sua giovanissima sposa. Lo schema in cui si mostra la pedagogia uomo-donna, in questo caso è quello paternalistico del rapporto tra adulto e minore.

Le ménagier elenca i compiti che le spettano, e in questo è più pratico e dettagliato di altri quando insegna a sovrintendere alla casa e alle proprietà, il giardinaggio, come togliere le macchie di grasso, acchiappare le pulci, predisporre banchetti, soffermandosi anche su norme di sicurezza, perché la sera la candela va spenta “con il fiato o con le dita […] e non gettandole sopra la camicia” . L’uomo le parla con l’affetto attento dovuto ad una bambina che deve crescere: «Perciò amate premurosamente la persona di vostro marito; e vi prego che lo teniate lindo quanto alla biancheria, poiché è vostro compito, e perché è propria degli uomini la cura delle occupazioni esterne, ed essi debbono attendervi, andare, venire e correre di qua e di lì, con la pioggia, col vento, con la neve, con la grandine, una volta bagnato, un’altra asciutto, una volta sudato, un’altra tremante, mal nutrito, male alloggiato, mal riscaldato, mal coricato. Ed egli fa tutto ciò poiché è confortato dalla speranza della cura che la donna avrà di lui al suo ritorno, dagli agi, dalle gioie e dai piaceri che ella procurerà […]: essere riscaldato da un buon fuoco, farsi lavare i piedi, avere cambiate calze e scarpe, ben nutrito, ben dissetato, ben servito, ben riverito, ben coricato in bianche lenzuola e in berretto da notte bianco, ben coperto di buone pellicce, e soddisfatto in tutte le altre gioie e divertimenti, privatezze, amori e segreti di cui mi taccio. E l’indomani biancheria e vestiti nuovi”. 

Dietro la gentilezza del maturo marito si prospetta, e insistentemente, la divisione dei ruoli e il ‘dover essere’ della subordinazione delle mogli all’interno del quadro coniugale, garanzia di ordine e unità sociale, più ancora che sviluppo stereotipo dell’idea biblica della nascita di Eva dalla costola di Adamo. Tra norme e pratica la complicità mi sembra, come sempre, evidente.

Le cose cambiano nei trattati diretti alle adulte sole perché, in quanto rimaste vedove o abbandonate dal marito esule o in guerra, hanno il diritto e il dovere di imparare a “reggere bene la casa sua”. Christine de Pizan elenca le cose che deve saper fare una nobildonna che viva della rendita delle sue terre quando le occorra rimpiazzare il marito assente: allora essa deve farsi esperta di diritto, nella gestione delle terre, nella pianificazione delle spese di casa attraverso la tenuta di un bilancio scritto. Del resto, spiega san Bernardino, se, quando la coppia è integra, la cura della famiglia è affidata alle donne e la funzione di capofamiglia agli uomini, la buona vedova può ribaltare i ruoli in “uno scambio quasi appresso come il suo marito”, diventando legittimamente “per reggere la sua famiglia […] una donna mezza maschia”. 

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