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Sul filo della corrente, col favore del vento, anche le strade muoiono

Siamo nell'inverno del 415, al tempo delle grandi invasioni: sono trascorsi appena nove anni da quando Vandali, Alani, Svevi hanno devastato la Gallia e appena cinque da quando Alarico ha saccheggiato Roma

Sul filo della corrente, col favore del vento, anche le strade muoiono
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Gabriella Piccinni Modifica articolo

12 Luglio 2021 - 14.31


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di Gabriella Piccinni

 

Si narra che nell’ VII secolo l’abate Sturmi, attraversando la boscaglia intorno alla sua abbazia di Fulda, si mettesse ogni sera ad abbattere alberi per costruire un recinto nel quale riparare il suo asino dalle bestie feroci. Ma già all’inizio del V secolo, tornando da Roma in Gallia, il possidente gallico Claudio Rutilio Namaziano era stato costretto ad evitare strade e ponti in rovina e scegliere la via di mare.

Siamo nell’inverno del 415, i tempi sono quelli delle grandi invasioni: sono trascorsi appena nove anni da quando Vandali, Alani, Svevi hanno attraversato il Reno e devastato la Gallia e appena cinque da quando Alarico ha saccheggiato Roma.

 

L’immediato pericolo sembra passato ma i barbari si sono lasciati dietro una lunga scia di rovine. Rutilio torna nella terra di origine a curare i suoi interessi patrimoniali, per far fronte come potrà al disastro che si aspetta di trovare. A piccole tappe risale lungo la penisola, navigando sottocosta con un piccolo convoglio di barche, perché le strade sono inagibili. Passando davanti a Populonia, in Toscana, Rutilio guarda e registra in versi ciò che vede, e che anche noi possiamo così vedere attraverso i suoi occhi: l’isola del Giglio sfuggita alla distruzione dei Goti e divenuta rifugio per i Romani in fuga dalla capitale, e ruderi di città abbandonate. “Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa, / immensi spalti ha consunto il tempo vorace. / Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri,/ giacciono tetti sepolti in vasti ruderi./ Non indigniamoci che i corpi mortali si disgreghino:/ ecco che possono anche le città morire.” (dalla bella traduzione curata da Alessandro Fo).

 

Così, con il rarefarsi della popolazione e degli scambi via terra e il contemporaneo avanzare del bosco e dell’incolto, si era fortemente deteriorata gran parte della rete sapiente di 5.000 km di strade che la civiltà romana aveva costruito e che faceva perno sul miliarum aureum del foro romano. Addirittura, quelle strade che per tanto tempo avevano tenuto insieme l’Europa – rettilinee e pianeggianti, larghe e lastricate, segnate da cippi miliari che indicavano le distanze, bordate di pietre, a brevi intervalli, per consentire di montare in sella senza bisogno di aiuto – in certe zone di frontiera erano state lasciate andare in rovina deliberatamente, perché non favorissero l’irruzione dei popoli nemici, utilizzate tutt’al più come comode cave di pietra già lavorata.

 

Accadde così che, fino alla tarda età moderna, divenisse più veloce e agevole viaggiare via mare e via fiume che per terra. Il Po, il Rodano, la Senna, il Reno, il Danubio, l’Oder si potevano percorrere seguendo il filo della corrente o risalendola a vela per ampi tratti. In questo modo, di fiume in affluente, a parte un giorno di viaggio per terra, si navigava dal Reno fino al delta del Rodano, e si tratta di un bel tratto d’Europa.

Poi c’era il Mediterraneo, disseminato di isole – che suggerivano di navigare a contatto visivo con la terraferma – e abbastanza calmo da rendere possibile navigare sottocosta senza finire per forza sugli scogli. Quella distesa di acqua tiepida, tra lo stretto di Gibilterra e l’istmo di Suez, era divenuta così un insieme di ‘strade di mare’ che collegavano tra sé le città della costa di tre continenti, ognuno con propri modi di pensare, di mangiare, di bere, di vivere, di credere.  Là sono confluiti per millenni i viaggiatori e con essi le bestie da soma, le merci, le navi, le idee, le religioni.

 

Certo, il mare poteva sempre diventare pericoloso quando ci si avventurava lontano dalla costa con navi non adeguate, maree forti turbavano la navigazione nell’Oceano Atlantico, i monsoni quello dell’Oceano Indiano, il Mar del Nord e il Baltico in inverni molto rigidi potevano gelare per ampi tratti. Tuttavia, in mare c’era il vantaggio di non pagare pedaggi fin quando non si attraccava nei porti, e si andava spediti se si aveva audacia e competenza per utilizzare i venti favorevoli o per sfruttare la forza stessa delle maree.

 

 

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