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Una donna al Quirinale. Per ora è "solo" un romanzo di Gianni Caria

Un estratto dal "Presidente addormentato". Dove Anna Bertoli è capo dello Stato ma è colpita da una malattia grave. E la politica istituzionale non sa o non vuole reagire

Una donna al Quirinale. Per ora è "solo" un romanzo di Gianni Caria
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2 Aprile 2019 - 16.06


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Avere come inquilina del Quirinale una donna di nome Anna Bertoli. Per adesso è pura fantasia, tuttavia immagina questa possibilità, ma con uno scarto rispetto a una prevedibile presa del potere salvifica, Gianni Caria nel romanzo di cui pubblichiamo il brano iniziale “Il Presidente addormentato” (Bibliotheka Edizioni, pp. 184, € 14,00). Perché uno scarto rispetto a una trama politica prevedibile? Perché lo scrittore, nato a Sassari nel 1960, magistrato dal 1989, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale della città sarda, immagina che la presidente vada in ospedale per una malattia grave, le altre cariche dello Stato si paralizzano «per tornaconto o per ignavia», suggerisce la scheda editoriale, il governo è immobile e il paese si blocca.
Un corazziere vigila sulla presidente ricoverata. Osserva e racconta. Sulla vicenda politica il narratore innesta i rapporti affettivi, dal padre politico ed ex partigiano alla madre Kate, americana, al collaboratore Aldo, in un intreccio dove, come è la vita, pubblico e privato si intersecano in una «Italia meschina ed egoista, dove ogni mossa nello scacchiere politico è condotta sul filo di una sconcertante ambiguità».

Oltre a essere autore e coautore di testi che spaziano dalla criminalità in Sardegna alla psicologia giuridica minorile, Caria ha già pubblicato il romanzo “La badante di Bucarest” (Robin, 2012) e ha cotradotto il romanzo “Gli anni falsi” di Josefina Vicens (Angelica Editore).

Gianni Caria: il silenzio è d’oro

Il silenzio è d’oro. Non ho mai capito bene questa frase che mia nonna mi ripeteva spesso quando ero un bambino che appena stava in piedi, ma dotato di una chiacchiera infinita, in una casa in cui tutti parlavano poco. All’inizio la prendevo alla lettera, perché la parola di mia nonna era legge, e così anche io parlavo il meno possibile. Ma non capivo come potesse arrivare l’oro stando zitto. Il mio silenzio non si è mai trasformato in oro o in altre ricchezze, ma ora so a che serve. Sono venticinque anni che parlo poco e ho trovato il lavoro che fa per me. Ore e ore di silenzio, a volte nel frastuono più assoluto, io zitto in piedi nella mia bella uniforme. Lo so che tutti mi guardano e si impressionano per la mia statura e la mia immobilità. Quando sono in servizio all’aperto, c’è sempre qualche ragazza che si accosta e pretende di farsi una foto vicino a me, magari con l’autoscatto, come fossi la fontana di Trevi.
Il silenzio è d’oro e ora mi pesa, perché è silenzio vero. Non è solo il mio impassibile tacere, è che proprio non c’è alcun rumore in questa stanza bianca con un vetro alle mie spalle e una porta aperta al mio sguardo fisso. Solo un ronzio di macchine penetra attraverso il vetro, un sussurro di circuiti elettrici, un pulsare di cuori digitali privo di emozioni.

Io sto fermo in piedi nella mia posizione di servizio, imparata in tanti mesi di addestramento. La divisa è quella di gran gala e devo sopportare la zavorra della corazza che mi fascia il busto, oltre all’ingombro dell’elmo. Ho imparato nell’addestramento a trasferire il peso del mio corpo dal piede destro a quello sinistro e viceversa, con impercettibili spostamenti che nessun occhio esperto potrà mai vedere. Tranne quello del Comandante, naturalmente, o quello dei marescialli più anziani, che conoscono tutti i trucchi meglio di me. Ho calcolato che posso stare in piedi apparentemente immobile almeno il doppio del tempo con questi movimenti invisibili, da foglia che cresce.
In questo silenzio vero mi verrebbe il desiderio di girare la testa e sbirciare al di là del vetro. Potrei farlo, dato che non c’è nessuno che guarda dalla porta e non mi sembra di sentire passi, ma il servizio è servizio.
Quanto durerà questo servizio? Al Comandante non l’ho chiesto. Il silenzio è d’oro. Ma lui deve avere capito qualcosa da un mio battito di ciglia, da un increspare del labbro. “Non so quanto durerà. Di sicuro fino a quando non si sveglierà”. Mi ha comunicato solo che da un certo punto in poi sarei stato qua per tutto l’orario di apertura della clinica. Dalle sei del mattino alle nove di sera. Non mi ha detto che sarei dovuto rimanere immobile in piedi, ma per me è una cosa scontata: se sono qui con la divisa di gran gala non posso stare in altra maniera. Non qui, non in questo servizio. Però tutte queste ore mi sembrano troppe e mi chiedo se potrò sopportarle.
Ne sono già passate tre e non è venuto nessun visitatore, solo un’infermiera e un medico che si sono infilati nella stanza dietro di me, oltre il vetro. Avrei voluto guardare mentre aggeggiavano sulle macchine, mentre si davano da fare intorno al corpo. Sono andati via dopo un quarto d’ora, lanciandomi un’occhiata di curiosità. Prima o poi anche loro vorranno farsi fotografare vicino a me.

Non sappiamo quando si sveglierà il Presidente

Il Presidente dorme da una settimana. È questo il problema: il Presidente si è addormentato e non sappiamo quando si sveglierà. Mi hanno raccontato tutto i miei commilitoni di turno quella mattina al Quirinale. Era nello studio, il viso all’ingiù sulla scrivania, il braccio destro proteso in avanti con ancora nella mano rattrappita la piccola biro argentata. Sulla scrivania un foglio con l’elenco dei nuovi ministri. “Ci credi, c’erano due nomi cancellati con vicino scritto a mano un grande NO” mi ha detto Rais, “ma non ho fatto in tempo a vederli, perché il Comandante l’ha fatto sparire mentre soccorrevamo il Presidente”.
Era stato messo giù sul tappeto, slacciata la camicia bianca, tolte le scarpe. Il medico di turno si era prodigato intorno al Presidente nei due minuti necessari perché arrivassero i barellieri dell’ambulanza. “Subito, alla clinica” aveva detto in un soffio allentandosi il nodo della cravatta, il volto rosso e sudato.
L’ambulanza era partita veloce, preceduta da due dei nostri con la motocicletta e la sirena. Quattro minuti dal Quirinale alla clinica, non di più, mi hanno poi detto con un certo orgoglio.

Dicono che qui il Presidente sia stato operato al cervello, ma da quello che vedo io non mi sembra possibile. Il volto è disteso, il profilo del piccolo naso aquilino si staglia con nettezza sullo sfondo della parete bianca. I capelli cadono scomposti sulla fronte e non c’è traccia di fasciature sulla testa. Il corpo è interamente coperto da un lenzuolo verde, ma ne percepisco comunque i contorni e la lunghezza. Quaranta centimetri meno di me, pensai sorridendo la prima volta che vidi il Presidente nella Sala dei Corazzieri. Ci passò in rivista, lo sguardo che si sforzava di essere serio ma che a me pareva divertito. Camminava impettito, con un’andatura frenata. Conosco quell’atteggiamento, l’ho visto in tante parate, un tentativo maldestro di rigore marziale di chi non ha fatto neanche il militare, accenni di rigidi inchini alla bandiera. Questo Presidente mi parve più disinvolto, come se si rendesse conto che in ogni caso da parte sua un passo marziale sarebbe stato improbabile a prescindere. Giusto un leggero arrestarsi, quasi più per godersi la scena che altro.
Mi piaceva questo Presidente diverso. Quando mi passò davanti notai che la sua testa non arrivava al livello del mio mento. Quaranta centimetri più o meno, pensai, contando che aveva i tacchi più alti dei miei.

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