Irene Berlingò, archeologa, già dirigente del Ministero dei beni e attività culturali, in questo articolo per globalist.it rende conto di un incontro tenuto a Roma martedì scorso dal titolo “La cultura in tempo di crisi”. “I poli museali sono il vero fallimento della riforma dell’ex ministro Franceschini”. Ancora: è stato un errore creare le soprintendenze uniche, scrive, “ma il ritorno alle soprintendenze di settore potrebbe uccidere il paziente” , lo Stato continua a investire poco in cultura (per il 2019 appena lo 0,49% della spesa pubblica che è aumentata a causa dell’indebitamento) , ma il pericolo davvero enorme è l’autonomia in materia richiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna: per l’archeologa, conoscitrice attenta dello stato del patrimonio artistico italiano, significherebbe mettere una pietra tombale la fine della tutela della nostra arte e cultura.
Irene Berlingò: “Parlare di cultura è come parlare di amore durante il colera”
Parlare di cultura in tempi di crisi, è come parlare dell’amore ai tempi del colera, citando la bella definizione di Giorgio Mele.
Si è dibattuto sui temi più caldi del dossier Beni culturali qualche giorno fa a Roma in un incontro promosso da Assotecnici (Associazione nazionale dei tecnici per la tutela dei beni culturali e ambientali). Sono stati affrontati i problemi più spinosi, quali la riforma dell’ex ministro dei beni culturali Dario Franceschini che ha definitivamente sovvertito il sistema culturale italiano, ignorando e spezzando il profondo legame tra beni e territorio, pensando alle raccolte museali intese solamente come collezioni, come una “quadreria”, secondo la definizione di Andrea Camilli, presidente dell’Associazione.
I poli museali vero fallimento della riforma Franceschini
L’istituzione dei poli museali regionali, secondo i tecnici, è il vero fallimento della riforma, e questo giudizio ricorre in molti interventi, tra cui quello di Simone Oggionni (di Articolo 1), che si sofferma “su quella piccola minoranza di supermusei” che è stata radicalmente separata dal sistema museale generale. Assistiamo infatti a due cesure: quella dei musei diffusi e separati dal territorio a cui appartengono e i venti grandi musei, da Capodimonte agli Uffizi a Brera dai piccoli musei territoriali. E se l’autonomia può avere un senso per i grandi musei di collezione, questo non si può rintracciare nel distacco dei musei dal territorio, che dal territorio si alimentano e ad esso sono profondamente legati e che fungevano da sempre come riferimento per il cittadino, non solo per avere informazioni ma anche per assicurarsi il controllo dei lavori di movimento di terra in campagna, per esempio, allo scopo di farsi assistere nel caso di ritrovamenti archeologici, pratica diffusissima nel Sud o in Etruria. Ed ecco spiegato anche il crollo delle pratiche di tutela archeologica di quasi il 50% in assenza del controllo del territorio, reso ancora più difficile dall’endemica carenza dei fondi per le missioni dei funzionari.
Archeologi, l’appello e il contro appello sulle soprintendenze
Un recente appello, firmato da più di un migliaio di archeologi, ha evidenziato alcune di queste criticità, con la richiesta pressante di ricostituire le soprintendenze archeologiche, eliminando le attuali soprintendenze “olistiche”.
E il tentativo di “contrappello” firmato dagli originali sostenitori della riforma – una cinquantina di universitari afferenti ad un paio di “scuole”, per così dire, non ha fatto che evidenziare, con la differenza dei numeri, la totale negatività del giudizio sull’assetto attuale; e questo è il timore anche di Valentina Di Stefano (Cisl Funzione pubblica del Ministero Beni e attività culturali – Mibac) e di Caterina Bon Valsassina, ex direttore generale Archeologia Belle arti e Paesaggio, che offre all’uditorio tre soluzioni: 1) il ritorno al modello Spadolini (il fondatore del ministero nel 1975, ndr), con il famoso Ufficio centrale 2) il modello con direzioni regionali 3) le direzioni generali e soprintendenze di settore. Il tema divide evidentemente l’uditorio, che dibatte non solo sulle soprintendenze “olistiche”, ma anche sui poli museali, la cui eliminazione con il riaccorpamento dei musei, soprattutto quelli archeologici al territorio, già costituirebbe un punto di partenza.
Più fondi solo per grandi musei e grandi progetti
Altro grande tema affrontato da Giorgio Mele (Sinistra Italiana), gli investimenti nel settore, che pur essendo aumentati dopo i grandi tagli del centro destra (0,19 % del bilancio generale dello Stato nel 2011), fino a essere pari nel 2018 allo 0,44 % della spesa pubblica, 0,47% per il 2019 (dati Ministero Economia e Finanze comprensivi del settore Spettacolo dal vivo e Cinema e audiovisivo; per il 2019 la spesa totale dello Stato aumenta per effetto del ricorso all’indebitamento), sono diretti alla ristretta cerchia dei grandi musei e in generale ai grandi progetti, tralasciando i piccoli complessi, la tutela e la manutenzione, insomma il territorio e quel museo diffuso da cui è costituito il Paese.
La vera emergenza: le autonomie regionali
Ma il vero pericolo oggi è costituito dalle autonomie regionali, fortemente volute da Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, tema affrontato nell’ultimo Consiglio dei Ministri del 15 febbraio scorso. e contro cui hanno già espresso una posizione unitaria compatta Cgil, Cisl e Uil. E se l’Emilia-Romagna si limita a voler “ricomporre il sistema delle competenze in materia di tutela e valorizzazione dei beni librari … costituire un sistema museale regionale integrato … ivi compresi quelli di proprietà statale presenti sul territorio … garantire un governo unitario e coordinato delle risorse nazionali, regionali e comunali in materia di spettacolo dal vivo e cinema …”, la Regione Lombardia punta alla valorizzazione dei beni culturali di proprietà pubblica su un elenco di istituti e luoghi della cultura appartenenti allo Stato ancora da definirsi, ma tra cui sono compresi Palazzo Litta, la Pinacoteca di Brera, Palazzo Ducale, il Cenacolo Vinciano, per esempio. Richiede inoltre la potestà legislativa e amministrativa in materia di paesaggio per l’elaborazione del Piano territoriale paesistico regionale (Ptpr) e la pianificazione paesaggistica e le funzioni legislative sul patrimonio librario. Invece il Veneto chiede direttamente le funzioni di tutela, prerogativa esclusiva dello Stato, e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali presenti sul territorio, con la tutela del paesaggio, sulla falsariga della Lombardia, compresi i vincoli e le autorizzazioni paesaggistiche.
Si comprende facilmente come il passaggio di queste prime tre richieste di autonomia, a cui se ne aggiungeranno delle altre, sarebbe l’inizio della dissoluzione del sistema di tutela dei beni culturali italiani, rendendo perfettamente inutile qualsiasi altra discussione. Ora è emergenza vera ed è questa l’emergenza.