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Nella paura di perdere il Natale l'eterno bisogno di scandire il tempo

Siamo esseri fragili e, in fondo, abbiamo ancora bisogno di qualcosa che ci ricordi l’alternarsi del giorno e della notte. Di qualcosa, come il ritorno ciclico delle stagioni e il ripetersi dei riti

Nella paura di perdere il Natale l'eterno bisogno di scandire il tempo
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Gabriella Piccinni Modifica articolo

29 Novembre 2020 - 15.44


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Nei calendari medievali, nei portali delle chiese e nelle miniature dei libri di preghiere, dicembre è il mese in cui si ammazza il maiale. Le bestie macellate pendono a testa in giù e cola il sangue che finirà nel sanguinaccio mescolato alla frutta secca. Lo mangeremo tutti insieme, familiari, amici e compari. Una certezza che ogni anno torna e dice che il cibo ora c’è, e speriamo che quella carne salata ci permetta di resistere fino al prossimo raccolto. 

Noi contemporanei abbiamo modificato la percezione antica di quel tempo e di quel bisogno contadino. Già il tempo urbano, costruito alla fine del Medioevo dallo sviluppo delle città, fu qualcosa di diverso e rivoluzionario, scandito com’era non più dell’alternarsi del giorno e della notte e delle stagioni, ma dall’orologio meccanico sulla torre civica o dalla campana che batteva il tempo del lavoro, nella seconda metà del Trecento divenuto una delle poste in gioco delle lotte sociali. La luce artificiale ci ha consentito di vivere anche quando il sole è calato. La notte pubblica – il tempo dei malfattori e dei crimini impuniti – è illuminata da un’estesa rete di lampioni, come lo è stata nei secoli passati da schiere di guardie urbane armate di lanterne. L’alternarsi di termosifone e condizionatore ci mantiene oggi nell’eterno placido tepore dei 20° attutendo la nostra sensibilità rispetto al freddo e l’inclemenza del clima. Un sistema di trasporti a scala mondiale porta sulla nostra tavola invernale cibi estivi maturati in un’altra parte del globo. 

Eppure, in questo dicembre di pandemia, scopriamo di aver ancora bisogno del Natale e della frutta secca, dei familiari, degli amici e dei compari.

Il fatto è che da quasi un anno le nostre giornate non sono più cadenzate né da quella parte dei ritmi ‘antichi’ che avevamo traghettato nella ‘modernità’, né dai ritmi nuovi con i quali avevano diversamente scandito giorni, settimane, mesi, vite. Non più risveglio, lavoro, scuola, rientro, compiti, cibo, sonno. Quasi perduta l’alternanza – settimanale e stagionale – tra il tempo del riposo e dello svago e quello del lavoro, conquista preziosa di tante lotte sindacali del Novecento. Le nostre giornate si consumano tra “casa e bottega, anzi in “casa e bottega”, dove lo spazio del lavoro di nuovo si confonde con quello della vita privata. 

Anche il tempo dell’esistenza individuale è improvvisamente tornato, in pandemia, simile a quello che era prima, quando cancellare la vecchiaia appariva un’illusione e sapevamo che la vita stessa era fragile, quando affrontare un parto alla fine dei nove mesi era un terno al lotto, essere vivi a un anno dalla nascita era un mezzo miracolo, come esserlo ancora dopo i quaranta o i cinquanta anni di età. 

Nello sconcerto che tanti esprimono di fronte alla prospettiva di ‘perdere’ il Natale si nasconde, perciò, oggi un bisogno ben più profondo della difesa del cenone in famiglia, della messa di mezzanotte o della vacanzina sugli sci. Viene semmai a galla la sofferenza per tutto ciò su cui la pandemia ha tirato una riga: l’alterazione repentina delle fasi e dei cicli della vita sui quali pensavamo di esserci stabilizzati, la perdita di quegli ultimi punti di riferimento che, con il loro ritmo regolare, avevano continuato a scandire il passare del tempo, il trascorrere degli anni, dei giorni e delle notti.

È dal IV secolo, del resto, che la data del Natale è stata fissata al 25 dicembre, al posto di una più antica festa del sole. Ed è noto che tante delle feste dell’anno cristiano coincidono con le grandi date astronomiche, quelle che agivano direttamente sulle attività agricole. Natale e il solstizio d’inverno, Pasqua e l’equinozio di primavera, San Giovanni Battista e il solstizio d’estate. Il 1 e 2 di novembre, quando il cielo si fa più grigio e la natura si addormenta nel letargo della stagione fredda, noi celebriamo senza più saperlo un processo di acculturazione avvenuto intorno al IX secolo, quando i monaci di Cluny inquadrarono nella festa cristiana dei Santi la notte i cui le popolazioni celtiche ricordavano i morti, consentendo ai contadini di mantenere le loro tradizioni pur rimanendo quei ‘buoni cristiani’ che i missionari li avevano fatti diventare. La Candelora, che il 2 febbraio celebra la purificazione della vergine, si sovrappose alla festa pagana dell’uscita dell’orso dal letargo. Altri simili riti hanno annunciato per secoli, in un passato lontano ma che in un certo modo senza saperlo abbiamo continuato a ricordare, il ritorno della primavera. 

Questo per dire che scandire il tempo non è cosa banale e che c’è un motivo se, quando questo ritmo ci viene a mancare, noi soffriamo. Non perché c’è da scegliere tra libertà o semi reclusione, tra scuole aperte o chiuse, tra Natale in famiglia o in solitudine, tra piste da sci o vacanza in casa, tra cristiani o atei o musulmani. 

Il fatto è che noi siamo esseri fragili e, in fondo, abbiamo ancora bisogno di qualcosa che ci ricordi l’alternarsi del giorno e della notte. Di qualcosa, come il ritorno ciclico delle stagioni e il ripetersi dei riti, che ci consenta di riacciuffare per un istante un frammento di eternità. 

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