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Micalizzi: «Un bravo fotoreporter di guerra? “Super partes” ma certi drammi restano dentro»

La graphic novel disegnata da Elena Cesana “Non si muore di lunedì” sulle esperienze del fotografo ferito in Iraq. Che qui racconta un mestiere pericoloso e la fame di adrenalina

Micalizzi: «Un bravo fotoreporter di guerra? “Super partes” ma certi drammi restano dentro»
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26 Ottobre 2020 - 15.01


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di Rock Reynolds

Mestiere difficile, quello del fotoreporter. Difficile e pericoloso, soprattutto quando svolto dagli avamposti più critici della nostra società o da uno dei tanti fronti di guerra tuttora attivi nel mondo. Difficile, ma pure affascinante agli occhi di molti. Aggirarsi con una macchina fotografica al collo tra le rovine fumanti di una città distrutta o tra le scale di un condominio di edilizia popolare in un’area urbana degradata ha un che di romantico che finisce per far passare in secondo piano il vero scopo di chi quella professione la svolge: raccontare e documentare.
Di certo non se n’è scordato Gabriele Micalizzi. Non si muore di lunedì. Storia del fotoreporter sopravvissuto all’ISIS (Signs Books, pagg 96, euro 20), da lui sceneggiato, disegnato da Elena Cesana e oggi acquistabile in libreria e online, è più di una graphic novel, vantando la peculiarità del racconto a fumetti fatto in prima persona dal protagonista e corredato, nella seconda metà, di alcuni suoi scatti inediti
Come scrive Enrico Dal Buono nell’introduzione al libro, “Gabriele Micalizzi è assente dalle foto di Gabriele Micalizzi. Il suo è un lavoro di sottrazione, un paradosso faticoso, l’ascesi dell’allusione…. Perché la protagonista è la morte… Ma la morte non è immortalabile, si mostra soltanto nel buio”.
In effetti, Micalizzi, nato a Milano nel 1984, da molti considerato uno dei fotoreporter più talentuosi della scena internazionale, un flirt con la morte lo ha avuto a Baghuz, in Siria, nel 2019, e si è trattato di un “appuntamento al buio”, considerato che gli è esplosa una granata RPG in faccia e che, per un ironico gioco del destino, proprio la fedele Leica Q che aveva in mano lo ha salvato da danni più gravi. L’onestà intellettuale con cui ha risposto ad alcune nostre domande è quasi disarmante.

Molti giovani considerano quello del fotoreporter il mestiere più romantico del mondo. È così anche per lei?
Non è il mestiere più romantico del mondo. È il mestiere più bello del mondo. Ma non sai mai quanti sacrifici servano per realizzarlo. Io ho scoperto la fotografia all’Istituto d’Arte, in un percorso scolastico molto complicato. A 16 anni facevo il tatuatore e a 18, presso quella scuola, mi sono innamorato della fotografia, attraverso una disciplina chiamata foto-cinema. Nella biblioteca della scuola ho conosciuto per la prima volta i grandi fotoreporter come Robert Capa e Don McCullin attraverso i loro libri. Vedere i loro scatti da luoghi esotici e l’emozione trasmessa dalle loro fotografie ha avuto un fortissimo impatto su un appassionato di avventura come me, cresciuto con l’immaginario dei film di Indiana Jones e Mad Max. Ho deciso subito che avrei voluto fare il reporter di guerra, ma è stata durissima, perché venivo da una famiglia proletaria. Dopo il liceo, ho iniziato a lavorare per un’agenzia chiamata New Press, per la quale realizzavo autentici reportage su notizie locali e, in quanto ultimo arrivato, mi toccavano spesso servizi su incidenti orribili e su raccapriccianti episodi di cronaca nera. È stata una scuola pazzesca: conoscere la città ti insegna a fare il lavoro e ad aprirti la strada in ogni situazione. Poi, mi sono trasferito per un paio d’anni in Australia e Indonesia perché volevo viaggiare e, tornato in Italia, ho fatto una scuola di fumetto e una di fotografia. Tramite un’amica, ho conosciuto Alex Maioli, prima della nascita del collettivo Cesura, e da quel momento non me ne sono più staccato.
Che legame c’è tra fumetti e fotografia?
Il mio sogno era fare il disegnatore di fumetti soft-porn. Ma la fotografia è più istintiva e veloce del fumetto e io sono una persona istintiva. Un bel giorno, sono andato a trovare una tatuatrice famosa che faceva i tatuaggi a un sacco di sportivi di fama nazionale e che, quando le ho detto che sapevo disegnare e fare foto, mi ha sconsigliato di fare tatuaggi: “Quello del tatuatore è un mestiere a metà tra il parrucchiere e lo psicologo. Vattene in giro a vedere il mondo”. L’ho ascoltata e mi sono buttato in questo lavoro. All’inizio è stata durissima, perché per farlo servono soldi. Sono stato in Afghanistan e poi in Tailandia, dove era scoppiata la rivoluzione. Sono tornato in Italia senza un soldo in tasca e Maioli ha insistito che io ci tornassi, convinto che fossi la persona giusta. Mi ha pagato il biglietto aereo ed è così che ho realizzato il mio primo vero reportage da una situazione di crisi. L’illustratrice della mia graphic novel, Elena Cesana, era una mia compagna al liceo. Ci siamo persi di vista per anni e, quando l’ho incontrata di nuovo, era diventata una bravissima e affermata fumettista, davvero in gamba.
L’empatia è una zavorra o l’aiuta in ciò che fa?
In realtà, il fotoreporter non si deve schierare ideologicamente con nessuno: deve essere super partes. Però, da essere umano quale sei, di fronte al dolore degli altri, tu questa empatia la provi. Sono cresciuto in un quartiere popolare difficile e questa empatia l’ho sviluppata presto, con amici che magari avevano i genitori agli arresti domiciliari oppure situazioni familiari molto complicate. Quando poi mi sono trovato in luoghi devastati dalla guerra, l’emozione comunque c’è stata, malgrado da reporter tu cerchi sempre di usare la macchina fotografica come scudo o come filtro. Certe cose ti restano dentro, soprattutto se hai dei figli come me. Una volta, ho fotografato una bambina di 9 mesi uccisa da un bombardamento. L’ho fotografata mentre veniva preparata per la cerimonia funebre. Qualche settimana prima, io stesso avevo compiuto il medesimo gesto con la mia figlia di 7 mesi, ovvero infilarle i pantaloncini. È stata una delle poche volte in cui mi sia scesa una lacrima. Ma per affrontare questo lavoro devi essere un po’ cinico. Ciò detto, ciò che vedi ti lascia sempre qualche scoria dentro.
Nel fumetto dice che “La bravura sta nel notare i dettagli che parlano”. Per esempio?
La foto che compare a pagina 13 di un tizio che spara con un mitra e regge la cartuccera tra i denti a Sirte, in Libia. Una specie di Rambo. È uno di quei dettagli che parlano!
Nel fumetto scrive pure che “La stampa dice di tutto” riguardo alla diffusione della notizia del suo ferimento. Lei ne aveva la minima percezione?
Assolutamente no. Ero in un ospedale da campo all’aeroporto di Baghdad e solo una volta tornato in Italia ho scoperto che la stampa aveva scritto di tutto, dal fatto che mi avessero sparato in faccia al fatto di aver perso gli occhi, le mani, le gambe. Ma noi avevamo già alle spalle l’esperienza di Andy Rocchelli, ucciso in Ucraina, e i miei colleghi sono stati bravi e non si sono fidati delle voci incontrollate. Fortunatamente, attraverso una rete di giornalisti affidabili che mi conoscono, hanno saputo esattamente in che condizioni mi trovassi. Io, però, questa cosa me la sono segnata.
La ricerca di un’esperienza adrenalinica fa parte del tuo lavoro?
La componente adrenalinica in questo mestiere c’è. Ho sempre voglia di tornare a documentare ciò che succede. In gennaio, sono tornato in Libia, sul fronte, senza esagerare, perché quanto mi era successo in Siria pesava ancora a livello psicologico. E poi l’esplosione mi ha provocato un acufene e, dunque, ho ben chiaro in testa quello che mi è accaduto. Si tratta, però, di un incidente di percorso che avevo messo in conto. Poteva andarmi decisamente peggio e, dunque, mi sento un miracolato. Ma, quando sperimenti certe emozioni, privartene diventa complicato. Per spiegarmi meglio, non potendo viaggiare per ovvii motivi in questo periodo, in agosto ho fatto un corso per prendere il brevetto da paracadutista e mi sono rotto una gamba. Senza riuscire a prendere il brevetto. Io sono un malato di adrenalina, ma non è per questo che faccio il fotoreporter. Lo faccio per raccontare storie attraverso le mie foto.

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