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Un ponte che viene da lontano e non si sa se andrà lontano

Dal Console Lucio Cecilio Metello a Salvini, passando per mille secoli di storia e decine di personaggi pubblici. Una Cronaca semiseria di una lunga ossessione italiana

Un ponte che viene da lontano e non si sa se andrà lontano
Un disegno del ponte di botti di Lucio Metello
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Marcello Cecconi Modifica articolo

8 Agosto 2025 - 11.56


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La storia comincia prima che nascesse l’Italia; prima del Rinascimento e anche prima delle invasioni barbariche. Una storia che prende forma due secoli e mezzo prima della nascita di Cristo, quando Lucio Cecilio Metello, console della Repubblica romana e reduce dalla vittoria contro i Cartaginesi nella Prima guerra punica, si ritrovò con un centinaio di elefanti africani da portare da Palermo a Roma. Secondo la leggenda, ordinò la costruzione di un ponte provvisorio fatto di botti di legno sullo Stretto di Messina. Una specie di ponte di barrique: il primo, non l’ultimo, a galleggiare più sui sogni che sull’acqua.

Da qui comincia l’eterna tentazione del ponte. Se le ideologie potessero essere assegnate alle infrastrutture, questo sarebbe il Viadotto del Sovranismo. La Sinistra, invece, da sempre più a suo agio con i tram elettrici, i porti aperti e le biciclette pieghevoli, ha visto nel ponte un pericolo ambientale, un buco di bilancio e un ottimo argomento per rimandare tutto a “quando ci saremo noi al governo, ma con la maggioranza giusta”. Il fatto è che questa storia è sempre stata ed è ancora di più diventata, una metafora, il simbolo di come si manifesta un governo e del suo potere.

Dopo l’Unità d’Italia, ci provarono alcuni padri nobili della Destra storica. Ma l’arrivo della Sinistra al governo e poi il terremoto del 1908, che distrusse Messina e Reggio Calabria, fecero saltare più di un piano. Mussolini ne parlò, ma come parlava anche del grano, dell’atleta italiano perfetto e del sole dell’Impero: parole, manifesti, propaganda, niente appalti.

Alla fine degli anni Sessanta il governo Rumor bandisce un concorso internazionale di idee per il ponte. Risultato: tanti modellini, zero cemento. Negli anni Ottanta, ci prova Bettino Craxi, poco socialista e molto pragmatista, sognando una “Hong Kong del Mediterraneo” con l’unificazione delle città di Reggio e Messina. La visione è globale, molto mediterranea e vagamente kitsch, com’era il suo stile. Poi arriva Tangentopoli, e l’unica cosa che passa su quel sogno è la dura realtà della magistratura.

E poi venne lui, Silvio Berlusconi, il Ponzio Pilato del ponte. Ogni elezione un bellissimo rendering, ogni legislatura una conferenza stampa. Poi il crollo del 2008: non del ponte, che non c’era, ma dei mercati finanziari, seguiti a ruota dal governo. Arriva Mario Monti e chiude tutto, come fosse una bisca clandestina.

Oggi, il testimone è passato alla nuova destra, quella del “prima l’Italia”, quella del “fare”. Giorgia Meloni dà il via libera, Matteo Salvini lo vuole grande, bellissimo e pronto per il suo solito self, perché parafrasando il famoso detto di Enrico IV “il ponte val bene una story”. Solo che ogni volta che un governo annuncia il ponte, la terra trema. In senso geologico, economico o geopolitico. Qualcuno ha già tirato fuori la scaramanzia: “Il ponte porta sfiga, lasciatelo stare”.

Eppure, che sia per gli elefanti di Lucio Metello, per la gloria di Mussolini, per la megalomania di Craxi, per l’astuzia di Berlusconi, per i titoli di Studio Aperto o per le stories di Matteo, il ponte resta lì: un fantasma di cemento, una zattera piena di propaganda, una promessa lunga tremila anni.

A chi si chiede se stavolta la promessa sarà mantenuta, la risposta, forse, è scritta sull’acqua, proprio come il ponte “barricato” di Lucio Metello.

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