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La Transizione ecologica tra realismo e utopia

L’unica soluzione è nel superamento dell’egoismo individualistico cambiando pratiche sociali e azioni politiche

La Transizione ecologica tra realismo e utopia
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27 Ottobre 2021 - 18.45


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di Giuseppe Rizza

Il lockdown vissuto ha messo in luce un dato importante. Fiumi, aria, laghi e mari sono diventati incredibilmente puliti: è bastato che diminuisse la pressione dell’uomo sull’ambiente. Abbiamo compreso quanto possa essere letale l’impatto antropico sulla natura. Per far capire cosa penso dell’attivismo di Greta Thunberg, e del relativo «blablabla», metto in discussione il concetto di transizione ecologica. Due parole sempre più usate da capi di Stato, economisti, ambientalisti e tanti altri ancora. Mi chiedo: credono, costoro, che sia davvero realizzabile tale processo? E sarà così semplice per ogni abitante del pianeta mutare comportamenti e abitudini quotidiane? O azzerare le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera? Credo proprio di no. Scomodo un filosofo del calibro di Thomas Hobbes per ricordare che «l’essere umano è intrinsecamente egoista e che, quindi, non è incline a cooperare». Sin dall’inizio dei tempi l’uomo ha sfruttato sole, vento, suolo e acqua per i propri bisogni; ha abbattuto e bruciato alberi per scaldarsi; disboscato intere foreste per costruire città a sua immagine e somiglianza; coltivato i campi in maniera intensiva, danneggiando senza scrupoli la fertilità del suolo. E adesso che il pianeta restituisce il conto da pagare, questo non poteva che essere molto salato. La nuova sfida dei governi prevede il passaggio da un sistema basato sulle fonti energetiche inquinanti a un modello virtuoso. In conclusione, mi domando: ma finora dove erano gli attuali eroici «paladini del green»?

La violenza del «capitalismo estrattivo» attuata dai grandi gruppi multinazionali non si è mai arrestata negli anni: non bastano cene di gala, slogan che ricorrono a immagini idilliache e il «blablabla» mediatico quotidiano. E poi non sopporto il sempre più pervasivo ambientalismo di facciata delle imprese, il greenwashing è ancora più letale che qualsiasi forma d’inquinamento. Non basta offrire al consumatore un prodotto naturale con un bollino impresso, bisogna dichiarare quale reale impatto ha sull’ambiente. Servono i fatti, non le chiacchiere. Seguire Greta Thunberg è una moda, fa sempre più tendenza soprattutto tra i giovani. Ma quanti di questi ragazzi hanno realmente ascoltato almeno una volta un discorso dell’attivista svedese?

«Futuro» è un’altra delle parole abusate in questa prospettiva, ma il futuro passa dal presente e il presente è tutt’altro che green. Sento spesso proclami di contrasto alla crisi climatica, accompagnati da promesse di porre fine agli squilibri sociali planetari. Non credo sia questo lo spirito giusto, bisogna fissare obiettivi a breve termine e procedere per piccoli passi. Nessuno può cambiare il mondo in pochi mesi. Ad esempio la cosiddetta «rivincita della campagna» non è da intendere come una moda post-pandemica, ma un’iniziativa strategica e realmente attuabile; d’altronde si tratta di un tema già affrontato dalla sociologia rurale nello scorso decennio che ora torna al centro del dibattito sociale ed economico e che, grazie alla spinta del nuovo Green New Deal europeo, riformula l’agenda politica. Anche una banale raccolta differenziata diventa un’impresa teutonica. Prendiamo in esame il nostro Paese: la raccolta differenziata in Italia è diventata obbligatoria dal 2015, ma ancora a oggi i rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata costituiscono solo il 62%. La strada è lunga e in salita. E allora ricordiamolo tutti: la transizione ecologica non è una scelta, ma è una necessità.

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