Il quadro della Nazionale pare l'"Urlo di Munch" | Culture
Top

Il quadro della Nazionale pare l'"Urlo di Munch"

La scelta di Spalletti di “onorare” l’impegno nonostante il divorzio avvenuto è parsa una farsa più che un gesto di professionalità. Serve un cambio di rotta radicale: tecnico, dirigenziale con un patto rinnovato tra club, federazione, giocatori e tifosi

Il quadro della Nazionale pare l'"Urlo di Munch"
Gabriele Gravina e Luciano Spalletti (immagine da Fanpage)
Preroll

redazione Modifica articolo

11 Giugno 2025 - 15.21


ATF

di Marcello Cecconi

C’era una volta la Nazionale italiana. Un vero patrimonio calcistico e culturale, simbolo d’eccellenza e orgoglio popolare. Oggi, a guardarla anche senza l’occhio dello specialista, resta un gruppo smarrito, prigioniero di una spirale di incertezza tecnica, pigrizia mentale e confusione istituzionale, con il serio rischio di mancare, per la terza volta consecutiva, la qualificazione a un Mondiale. Una “botta” epocale per un movimento in piena crisi d’identità.

Molte responsabilità ricadono sulla nostra Serie A che si è trasformata nel tempo in un campionato vetrina per talenti stranieri, spesso di passaggio, in cerca di fama e ingaggio in altri campionati, o altri mediocri o in fase calante, in cerca dell’ultimo buon contratto. Questi trovano spazio sistematicamente al posto di giovani italiani tanto che la concretezza impietosa dei numeri mostra che in molte squadre di vertice, gli undici titolari contano due, tre o forse quattro italiani.

Non è solo un problema patriottico o nostalgico: è una questione di sistema. Allenatori e dirigenti di club, sotto pressione per risultati immediati, preferiscono affidarsi a stranieri formati altrove, ritenuti più pronti, spesso a scapito di talenti nostrani che restano confinati in panchina o prestati nelle serie inferiori, dove solo pochissimi riescono a riemergere. Questo “soffocamento tecnico” ha ridotto il serbatoio della Nazionale limitando il ricambio generazionale e incidendo sull’identità.

Transfermarkt, un sito che fornisce varie statistiche sui principali campionati di calcio, alla fine del campionato 2023/24 mostra che i giocatori stranieri effettivamente impiegati dalle squadre di Serie A, ossia quelli con almeno una presenza in campionato, erano il 63,9 per cento contro il 36,1 per cento italiani. Una forbice, come si può vedere dalla tabella, che si è sempre più allargata negli ultimi anni.

Se osserviamo la Norvegia, la squadra che ha scoperchiato definitivamente il pentolone azzurro, vediamo che ha una rosa di ventiquattro giocatori e solo quattro di questi giocano nel campionato nazionale, gli altri venti partecipano ad altri campionati europei e fra questi, nove in Gran Bretagna. Questo ci fa capire quanto conti poco attingere dal campionato nazionale ma quanto conta invece che nel campionato nazionale ci siano opportunità di crescita e formazione per i giovani locali. Poi se il business del calcio li porta altrove da lì saranno richiamati in nazionale. Il Portogallo stesso, fresco vincitore della Nations League e che ci precede nella classifica Fifa, ha diciannove giocatori della rosa che giocano fuori.

A rendere grottesco il quadro già fosco e trasformarlo in “urlo di Munch” è arrivata la vicenda della gara di lunedì contro la Moldova. Un match che, sulla carta, avrebbe dovuto rappresentare un’opportunità per tentare una ripartenza di fuoco della Nazionale atterrita, venerdì scorso, dal vichingo Erling Haaland. La Moldova, posizionata nella classifica Fifa tra la nazionale di Hong Kong e quella africana dello e Swatini, pur con tutto il meritato rispetto doveva essere la facile sparring-partner costituita da dilettanti, o poco più, da sommergere di reti. L’inerzia azzurra l’ha trasformata in un’ottima squadra che ha perso 2 a 0 ma ha giocato alla pari infilando spesso un centrocampo pigro e una difesa svogliata, impaurita e poco disposta a correre all’indietro. Insomma, una Moldova che tecnicamente, tatticamente e fisicamente ha giocato almeno alla pari delle “star” italiche.

Ma la vera barzelletta istituzionale, sintomo della crisi che non riguarda solo il campo, è stata la presenza in panchina di Luciano Spalletti, restato lì pur avendo “dovuto” rassegnare le dimissioni dopo la gara di Oslo, per ossequiare la determinazione e convinzione di Gabriele Gravina di rimediare con il taglio del tecnico toscano. In effetti la scelta di onorare l’impegno nonostante il divorzio annunciato è parsa una farsa più che un gesto di professionalità. Le immagini di un tecnico apatico, scollegato dai giocatori con il Presidente della Fgci che si limitava a “non commento”, hanno consegnato al pubblico la rappresentazione plastica del caos in cui versa il nostro calcio federale. Una mancanza di trasparenza e coerenza che mina la fiducia dei tifosi e offende la dignità della maglia azzurra.

L’Italia è inserita in un girone tutt’altro che impossibile, ma neppure banale. Le sfide decisive arriveranno presto, e il tempo per recuperare terreno o consolidare posizioni è minimo. La qualificazione è ancora possibile perché la matematica non condanna, e un nuovo commissario tecnico con carisma e progettualità potrebbe ridare fiato all’ambiente. Ma questo non può bastare perché la Nazionale è, o dovrebbe essere, un bene comune, una missione collettiva, non un riflesso di interessi personali o giochi di potere.

Serve un cambio di rotta radicale: tecnico, dirigenziale, culturale con un patto rinnovato tra club, federazione, giocatori e tifosi. Un progetto condiviso che rimetta al centro l’educazione e la formazione sportiva dei giovani a partire dalle scuole e che ridia un senso al vestirsi d’azzurro.

Native

Articoli correlati