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L’arte africana? L’hanno saccheggiata i colonialisti europei

Il Senegal ha aperto un museo sulle culture nere mentre un rapporto ufficiale francese propone di restituire le opere depredate. Il senegalese Sarr: l'85% dell'arte africana è altrove ma spetta agli africani

L’arte africana? L’hanno saccheggiata i colonialisti europei
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12 Dicembre 2018 - 21.54


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A Dakar il presidente del Senegal Macky Sall ha appena inaugurato il Museo delle civiltà nere. Se vi sembra una faccenda lontana, è un taglio del nastro che ha profonde implicazioni per Parigi, Londra, Berlino e altre capitali. La discussione incide sull’identità africana, sul patrimonio artistico nei musei etnografici e antropologici di mezzo mondo, per lo più europei, solleva una domanda che è innanzi tutto morale, etica, di principi, di diritti: gli Stati africani hanno diritto a riavere l’arte strappata alle loro terre con le armi o con la forza iniqua del colonialismo? Fino a ora soltanto il Benin, nel 2016, ha richiesto un gruppo di opere dal British Museum di Londra.
Ferite non rimarginate
Per provare a comprendere e mettersi in altri panni: cosa vorremmo se i nazisti fossero riusciti a occupare per decenni la penisola, a portare quintali di opere d’arte, da Giotto a Botticelli, dal Mantegna al Bernini, rubandole alle nostre collezioni o costringendo i proprietari a svenderle per un nulla? Comporta ferite non rimarginate, questa storia. E, però, la controversia contiene risvolti contraddittori. Uno tra altri: il museo Quay Branly a Parigi dimostra quanto l’arte africana sia di primo piano, abbia grande bellezza e chiunque pretenderebbe di relegarla in un secondo livello o non la consideri arte compierebbe una delegittimazione, uno screditamento politico.
Dakar celebra le culture nere
Il museo di Dakar vuole celebrare quanto hanno dato alle culture dalle origini del genere umano a oggi. “Il museo si inserisce nelle dinamiche a lungo termine tra confluenze e sinfonie tra africani e discendenti africani uniti nell’affermazione dei loro valori culturali e civili”, ha esclamato il capo di Stato a proposito dell’istituzione che fu immaginata dal primo presidente senegalese nel 1966, il poeta della negritudine President Léopold Sédar Senghor. La raccolta può contenere 18mila pezzi e spazia tra le culture del continente sub-sahariano e i Caraibi, dove furono portati centinaia di migliaia di africani in catene e ridotti in schiavitù fino al XIX secolo. Ha finanziato la costruzione e la nascita del museo la Cina (ormai presente in gran parte del continente africano) con 30 milioni di euro.

Macron, il Benin e le 90mila opere africane in Francia
Al centro della bufera si trova la Francia. Il presidente Emmanuel Macron ha proposto un summit internazionale nella capitale francese entro il giugno 2019 e, nel frattempo, di restituire in tempi rapidi 26 manufatti al Benin saccheggiati nel 1892 come bottino di guerra dal generale Dodds nel palazzo di Behanzin, ultimo re del regno del Dahomey. Com’è arrivato, Macron, a simili propositi apparentemente nobili? Aveva definito “una priorità” il “ritorno del patrimonio africano in Africa” nel novembre 2017 in un discorso all’Università di Ouagadougou, in Burkina Faso. A marzo aveva commissionato un rapporto sulle opere africane da restituire. La storica dell’arte e docente al College de France Bénédicte Savoy e l’economista, scrittore e professore all’università di Saint-Louis in Senegal Felwine Sarr allora hanno censito 46mila manufatti nei musei francesi frutto di saccheggi o di acquisti vergognosi tra il 1885 e il 1960: provengono da Senegal, Nigeria, Mali e Ciad, la maggior parte è al Museo Quai Branly il museo delle arti e civiltà d’Africa, Asia, Oceania e America a Parigi che possiede circa 70mila pezzi africani dei 90mila presenti nei musei francesi.
Sarr: l’85% dell’arte africana non è nel suo continente
Felwine Sarr e Bénédicte Savoy non hanno compilato un censimento semplice, ancorché ostico e complicatissimo. I due esperti, con la consulenza legale dell’esperto dell’università di Parigi X Nanterre Vincent Négri, hanno proposto che le restituzioni avvengano in un quadro di accordi bilaterali tra la Francia e il paese dove le opere dovrebbero tornare, stando ai confini attuali. Poiché le leggi francesi vietano di vendere o cedere opere del patrimonio nazionale, quindi niente può uscire dai musei, lo schema degli accordi bilaterali dovrebbe aggirare il divieto ed essere inserito nel codice del patrimonio culturale. Sarr su “Libération” ha fatto notare che l’85-90% dell’arte africana non è in Africa, una «anomalia» mondiale, e ritiene che giovani africani abbiano «diritto» al loro patrimonio culturale.

Il British Museum non la scampa
Come potete intuire, parlando di culture nere, colonialismo e schiavismo l’Europa si ritrova al centro del dibattito: restituire ai paesi d’origine opere d’arte e manufatti frutto di saccheggi, depredazioni o di acquisti a prezzi iniqui? Di recente l’isola di Pasqua ha rivendicato il ritorno della statua di Hoa Hakananai’a ammiratissima al British Museum di Londra: il piccolo lembo di terra nel Pacifico segue la battaglia pluriennale della Grecia che rivuole i Marmi del Partenone che il conte Elgin portò, furbescamente, a inizio ’800 in Gran Bretagna. Per la cronaca, l’istituto londinese possiede 73mila pezzi dall’Africa sub sahariana.
Sarr-Savoy: Londra riconsegni i saccheggi del 1892 e 1897
Sarr e Savoy mirano al nocciolo della controversia: “Dietro una facciata meravigliosa, le questioni sulle restituzioni ci invitano ad andare al cuore di un sistema di appropriazioni e alienazioni, il sistema coloniale, di cui molti musei europei sono diventati, contro i loro desideri, i depositari”. È una via legalmente praticabile? Oppure una strada può essere concedere prestiti quinquennali rinnovabili all’infinito? È accaduto nel 2010: la Corea del Sud rivoleva un gruppo di manoscritti trafugati da militari nel 1866, la Bibliothèque Nationale li ha consegnati in prestito, quindi conservando la proprietà, allo Stato asiatico per volontà dell’allora presidente Nicolas Sarkozy.
I due ricercatori francesi intanto invocano che i manufatti frutto dei saccheggi britannici ad Abomey nel 1892 e nel Benin nel 1897 vadano riconsegnati ai legittimi Paesi “senza ulteriori ricerche sulla loro provenienza”. Sulle missioni scientifiche compiute nel ‘900, che Sarr e Savoy non esitano a descrivere come “raid”, i due autori concedono che se un museo dimostra di avere una maschera o una statua o quant’altro grazie transazioni eque e libere allora ha tutto il diritto di tenersela. Ma provarlo sarà spesso difficile. Su quanto ha varcato i confini originari dopo il 1960, perché è l’anno di indipendenza di molti Paesi africani, la questione si fa ancora più intricata e molto più sfumata, per cui Savoy e Sarr raccomandano ulteriori indagini.

Se Parigi restituisce il maltolto, ci  guadagnano i razzisti?
Paesi come la Cambogia, il Laos, territori come il Maghreb sono rimasti al momento fuori dal rapporto. Cosa può accadere? Per le raccolte etnografiche francesi si può profilare un’emorragia che mina la loro stessa ragione di esistere. Per musei come il Quay Branly i commentatori hanno prospettato un autentico “incubo burocratico”. E poi si apre una prospettiva spinosa: il Quay Branly prova come le culture africane, asiatiche, oceaniche abbiano partorito capolavori, ancorché create per fini religiosi e/o rituali (anche le nostre Madonne e i nostri Crocifissi antichi hanno avuto un primario fine religioso, devozionale, ricordiamocelo).

In modo succinto: il Quay Branly e altri invitano a comprendere il valore di culture diverse da quella occidentale, aiutano i francesi di seconda e terza generazione a capire che non hanno un’origine di serie B, tolgono terreno sotto i piedi dei razzisti che vorrebbero sminuire l’arte e il pensiero dall’Africa nera. Se si svuota il Quay Branly, ne trae vantaggio chi vuole un’identità culturale francese puramente bianca?

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