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Sanremo 2022, il bilancio di fine Festival

Una 72esima edizione che strizza l’occhio alle giovani generazioni (ma non alla musica)

Sanremo 2022, il bilancio di fine Festival
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6 Febbraio 2022 - 02.06


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di Lucia Mora

Che cosa rimarrà della 72esima edizione del Festival di Sanremo? Ci sono tre punti di vista da cui poter osservare la kermesse: le scelte di Amadeus (in quanto direttore artistico), il confronto tra generazioni e la qualità delle canzoni in gara.

In realtà, il primo e il secondo punto sono strettamente legati tra loro. Guardando l’elenco dei big in gara, ci si rende presto conto che la maggior parte di loro sono giovani, se non giovanissimi. Achille Lauro, Dargen D’Amico, Aka 7even, Ana Mena, La Rappresentante di Lista, Mahmood e Blanco, Sangiovanni, eccetera eccetera eccetera. Al contrario, i nomi “storici” si contano quasi sulle dita di una mano: Elisa, Gianni Morandi, Iva Zanicchi, Emma, Le Vibrazioni, Giusy Ferreri e Massimo Ranieri. Sette nomi sui venticinque totali. Un confronto generazionale che si esplicita anche nella coppia Ditonellapiaga-Rettore: la prima ha 25 anni, la seconda 66.

È evidente che Amadeus abbia fatto tesoro delle due precedenti esperienze all’Ariston, segnate dalla vittoria di Diodato prima e dal trionfo – anche e soprattutto mediatico – dei Måneskin poi. Ha compreso l’importanza del pubblico più giovane che, se coinvolto, sa essere parte integrante del Festival, sia rivoluzionando la classifica col televoto sia commentando la competizione sui social tanto da renderla primo argomento in tendenza.

La prova più lampante? Il famoso FantaSanremo. Un’iniziativa nata da un gruppo di giovani che non solo è diventata il fenomeno più discusso del Festival, ma che è stata talmente influente da aver contagiato persino la quota “over” dei partecipanti. Quanta tenerezza ha fatto Massimo Ranieri quando, dopo essersi esibito in questa finale, ha confessato con un certo imbarazzo ad Amadeus di dover dire “papalina” per accontentare i nipoti?

Al tema generazionale si associa però spesso un dubbio (più che lecito). Ha senso far gareggiare artisti e artiste solo perché giovani, a scapito delle loro capacità?

C’è una bella considerazione – attribuita a Giorgio Gaber – che recita così: «Ci sono due tipi di artisti: quelli che vogliono passare alla storia e quelli che si accontentano di passare alla cassa». Ecco, a giudicare dalla qualità dei brani in gara quest’anno, si ha la netta sensazione che il direttore artistico consideri Sanremo più come “carrozzone mediatico” su cui fare bilanci economici, che come festival della canzone italiana.

A sua discolpa, va detto che il livello del panorama musicale italiano rasenta lo zero da ormai troppi anni. O meglio: la cultura musicale in Italia rasenta lo zero. Il fatto che uno come Achille Lauro venga trattato come il nuovo David Bowie è devastante e, soprattutto, preoccupante. Significa che l’asticella si è gradualmente abbassata, fino al punto in cui il talento è un “optional”. Del resto che importa se Ana Mena usa l’Ariston come un villaggio vacanze, se poi la sua canzone fa ascolti?

Sarebbe bello che Amadeus (o chi per lui) cominciasse a considerare il Festival di Sanremo come uno strumento di dialogo con le giovani generazioni, ma nel senso pedagogico del termine. Sarebbe bello che a partecipare fossero persone sì giovani, ma anche e soprattutto competenti. Mahmood è l’esempio perfetto di artista che coniuga le due dimensioni: da un lato le capacità canore – peraltro perfezionate con le lezioni di canto al CPM Music Institute del grande Franco Mussida – e dall’altro l’aderenza a uno stile musicale contemporaneo, tra soul R&B e pop.

La vittoria che ha condiviso con Blanco è un buon segnale in questa direzione, nella speranza che la meritocrazia torni a essere il principale criterio di selezione degli artisti e delle artiste in gara, oltre al numero di follower su Instagram e alla quota di ascolti mensili su Spotify.

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