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«Per salvare il pianeta immaginare l’apocalisse non è la strada giusta»

Nell’emergenza climatica i concetti troppo astratti rischiano di restare inefficaci. Simone Pollo, filosofo: meglio l’empatia verso le forme di vita che conosciamo

«Per salvare il pianeta immaginare l’apocalisse non è la strada giusta»
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8 Ottobre 2019 - 17.20


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Simone Pollo *

Mai come in questi mesi la questione del cambiamento climatico ha occupato gli spazi della discussione pubblica, portando alla ribalta un tema che è sotto l’attenzione di scienziati, filosofi e attivisti almeno sin dai primi anni Novanta del XX secolo. Non si può che essere riconoscenti a Greta per avere acceso questa attenzione e generato un movimento di opinione che ha portato la questione nelle agende politiche nazionali e internazionali. Nei discorsi di chi, giustamente e meritoriamente, partecipa a questo movimento di opinione ritorna spesso uno slogan che dovrebbe condensare gli scopi per i quali tante persone scendono in piazza e si impegnano in altre forme di attivismo. Questo slogan recita “Salviamo il Pianeta!” (o “Salviamo la Terra!”). È questo un invito, un vero e proprio imperativo in realtà, per richiamare governanti e comuni cittadini all’azione per arrestare il riscaldamento globale causato dai nostri processi di civilizzazione.

Dire “Salviamo il pianeta” è efficace?
Alla base di questo slogan, carico di urgenza e drammaticità, c’è l’idea che gli esseri umani possano con le proprie azioni porre fine non solo alla vita della specie Homo sapiens, ma anche alterare così radicalmente l’ecosistema globale fino a porre fine alla vita sulla Terra, o quantomeno ridurne drasticamente la diversità e la quantità complessiva. Che questo sia un effetto possibile (e senza dubbio tragico) della civilizzazione umana non è in discussione e lo slogan “Salviamo il Pianeta!” vuole chiamare all’azione proprio per evitare questa eventualità. Ci si può chiedere, tuttavia, se questo tipo di retorica pubblica sia davvero efficace o se essa non contenga fallacie tali da renderla inefficace e confusa. Non è ovviamente in discussione il fatto che ci sia un’emergenza ambientale a livello globale e che siano del tutto necessarie e urgentissime azioni efficaci per porvi rimedio. Quello di cui si deve discutere è come queste necessità e urgenza debbano essere pensate, comunicate e rese oggetto di responsabilità individuali e collettive.

Temere la scomparsa degli esseri umani
Il filosofo Hans Jonas, fra i primi a pensare la questione ambientale in modo autenticamente globale, nel suo Principio responsabilità argomentò la necessità di una vera e propria “euristica della paura”, sostenendo che la possibile sparizione dell’essere umano dalla faccia della Terra dovrebbe apparirci come un’eventualità così tragica da suscitare in noi un tale terrore da farci comprendere quale sia la giusta misura di prudenza per evitarla. La paura di un tale scenario apocalittico, cioè, ci consentirebbe di adottare le misure giuste per prevenirlo. Ma l’apocalisse (il Pianeta al collasso che dovremmo salvare) è davvero un orizzonte pensabile e adatto per una responsabilità verso l’ambiente, individuale e collettiva, che si dispieghi efficacemente nelle nostre vite quotidiane?

Franzen: pensare la fine del mondo è spesso un ostacolo
Nella sua recente raccolta di saggi La fine della fine della Terra, lo scrittore Jonathan Franzen osserva in modo acuto e convincente come la retorica della fine del mondo sia spesso un ostacolo alla possibilità di vedere i problemi di tutela dell’ambiente e delle specie non umane nel modo in cui questi si presentano nella nostra quotidianità e nell’orizzonte limitato delle nostre vite. In effetti, noi esseri umani, per il tipo di animale sociale che siamo diventati grazie alla nostra evoluzione biologica, abbiamo molta facilità a simpatizzare con chi ci è più vicino e famigliare. Per estendere la nostra considerazione morale oltre certi limiti spaziali e temporali dobbiamo educare la nostra simpatia e i nostri sentimenti, lavorando con la riflessione e l’immaginazione.

Lo scenario apocalittico che ci richiama l’invito a salvare il pianeta è qualcosa che può efficacemente entrare nei nostri processi di riflessione e di immaginazione? Siamo davvero in grado di immaginare un pianeta desolato di ogni forma di vita? O è forse questo uno scenario così alieno da non poter essere incorporato nelle riflessioni che dovrebbero dare vita ai modi in cui esercitare quotidianamente le responsabilità verso l’ambiente e gli esseri umani che abiteranno il pianeta dopo di noi? Forse il cambiamento di stili di vita che ci è richiesto per invertire la tendenza del riscaldamento globale fatica ad alimentarsi a una fonte così straniante per l’immaginazione.

Avere scenari più a portata di immaginazione
È possibile che un tale cambiamento di abitudini (un’impresa per nulla facile) possa trarre più efficacemente alimento dal portare sotto il fuoco della riflessione scenari più vicini e trattabili all’immaginazione. Non è il pianeta in sé a essere l’oggetto della nostra responsabilità o la possibilità di continuazione della vita in astratto. Se guardiamo al modo in cui già opera la nostra riflessione morale in situazioni più famigliari e quotidiane, allora osserviamo che sono gli individui concreti (le cui vite conosciamo o immaginiamo) a sollecitare la nostra simpatia e i nostri sentimenti, e a generare responsabilità verso di essi. Ad essere importante, quindi, è la molteplicità di forme di vita di esseri umani, di animali e di piante, più o meno distanti da noi, con i quali possiamo in vari modi simpatizzare. La distruzione e salvezza del pianeta sono idee troppo astratte e distanti, ma non lo sono le molte forme individuali di vita, reali e possibili, minacciate dal cambiamento climatico.

* Ricercatore di Filosofia morale, Dipartimento di Filosofia, Università della Sapienza, Roma

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