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Caccia all’uomo, quando la realtà supera cinema e letteratura

La mancata cattura di Igor (che poi si chiama in un altro modo) è solo l’ultima di una lunga serie: da Vallanzasca a Bonnie & Clyde. Che ha affascinato il cinema e scrittori come Scerbanenco

Caccia all’uomo, quando la realtà supera cinema e letteratura
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5 Novembre 2017 - 17.24


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di Enzo Verrengia

 

No, purtroppo non è l’esilarante “Aigor” tutt’occhi di Marty Feldman in Frankenstein Junior. Anzi, non si chiama neppure Igor Vaclavic ma Ezechiel Norbert Feher, e non è russo bensì serbo, di origini ungheresi. Sparito dopo una caccia infruttuosa nel corso della quale risultava libero, armato e pericoloso, secondo il linguaggio delle informative scambiate o non scambiate fra i vari nuclei delle forze dell’ordine. A braccarlo, la scorsa primavera, erano schierati mille elementi, comprese unità speciali dell’esercito. In diretta mediatica si replicava una variazione sul tema della battuta venatoria a un esemplare della specie più aggressiva e spietata, quella umana. I fatti del ferrarese, che oggi tornano di attualità con le roventi polemiche sulla sua mancata cattura, evocano dei precedenti.

In Puglia, la movimentata fuga dell’ergastolano Fabio Perrone dall’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce, alla fine del 2015. Fu riacciuffato due mesi dopo. Quindi la doppia evasione di Bartolomeo Galliano da carcere genovese di Marassi e quella di Pietro Esposito da quello pescarese di San Donato. Più indietro, Sante Notarnicola e Paolo Caso riempirono l’informazione in bianco e nero. Il 31 luglio 2004 si chiuse con una sparatoria al Circo Massimo la scia cruenta di Luciano Liboni, detto il Lupo, l’uomo che terrorizzò per giorni la Capitale e fino all’ultimo non rinunciò a sfoderare gli artigli, prendendo in ostaggio una turista francese e facendo fuoco contro i carabinieri che lo accerchiavano. Ne aveva già ucciso uno, dieci giorni prima, l’appuntato Alessandro Giorgioni, che gli aveva chiesto i documenti in un bar di Sant’Agata Feltria. Per lui veniva da parafrasare dei versi di Majakovskij: la barca infranta contro la quotidianità era quella dell’odio, non dell’amore. Gli si addiceva, come per gli altri, il concetto di Unheimliche, perturbante, secondo la traduzione ricorrente, che si deve a Sigmund Freud: «Essa si riallaccia indubbiamente a ciò che è spaventoso, che suscita terrore e orrore…» Il perturbante irrompe nel ciclo della quotidianità, della normalità, per stravolgerla, soprattutto mettendo a rischio l’incolumità altrui.
Cosa poteva esserci di più normale dei favolosi anni ’60, quando la solidità finanziaria si dava per garantita e gli spari della guerra erano già stati rimossi dalla generazione che l’aveva combattuta e adesso tirava a campare in ufficio o in fabbrica? Su questo scenario fece un’entrata davvero perturbante Luciano Lutring, il solista del mitra, con la rapina di via Montenapoleone. Alla quale seguì una fuga dalle modalità diverse rispetto a quella di Liboni, eppure altrettanto epica, gravida di possibili risvolti melodrammatici. Tanto che Carlo Lizzani ne trasse un film, Svegliati e uccidi, con Robert Hoffman nei panni del rapinatore: un cambiamento di 180 gradi per l’attore divenuto famoso alla tv dei ragazzi come interprete di Robinson Crusoe.

Più sanguinaria la scappata di Piero Cavallero, anch’essa rievocata al cinema dallo stesso regista in Banditi a Milano, dove stavolta imperversava Gian Maria Volonté. In questa seconda pellicola, l’analisi del mutamento sociale che nutriva la figura del lupo assassino si faceva più marcata. La metropoli lombarda mutava velocemente i connotati meneghini per internazionalizzarsi, oggi si direbbe globalizzarsi. Il centro perdeva la sua popolazione più autentica, sfrattata dai rincari verso l’immensità dell’hinterland. Arriva la delinquenza dall’estero. Quella locale deve attrezzarsi per sopravvivere. L’erede nel male di Lutring e Notarnicola fu Renato Vallanzasca, il bandito della Comasina. Anche la sua divenne una corsa allo sbando lunga e sospesa sull’orlo delle sparatorie, anche se poi la cattura si consumò in circostanze meno adrenaliniche, senza piombo e sangue.
Tutte queste figure erano state trasformate sul nascere in icone letterarie iperrealiste da Scerbanenco, che nelle sue storie della Milano nera regalava ai lettori ineguagliabili variazioni sul tema del crimine e della fuga. Quando il segugio era Duca Lamberti, ex medico divenuto poliziotto, i lupi non avevano scampo. A volte, però, specie nei racconti brevi, s’imponevano proprio i cattivi, delinquenti senza possibilità di redenzione, colpevoli non solo di ciò che avevano commesso ma anche di non sapere adeguarsi alla società che cambiava, o peggio, di approfittarne a spese del prossimo. Scerbanenco non faceva sociologia, non scaricava affatto sul contesto ambientale la criminalità in ascesa, si limitava a prendere atto del rapporto intrinseco fra le due cose.

Deliri di onnipotenza di pura importazione americana. Jonn Dillinger, quando si ritrovò accerchiato dagli uomini dell’FBI, li appellò urlando G-Men, abbreviazione di Government Men, e coniò una nuova espressione. Bonnie e Clyde si ritrovarono crivellati nella loro auto da un numero fantasmagorico di proiettili. Era il modello del gangster, che attecchì in Italia solo quando la maggiore disponibilità di denaro nelle banche e di gioielli nelle vetrine sancirono il passaggio dall’economia rurale allo sviluppo metropolitano, con l’aumento del divario fra ricchi e poveri. Quello era il tempo del rapinatore, dell’assassino. Anche perché, nel frattempo, si sviluppava anche una deriva politica della devianza sociale. I gioiellieri cadevano vittime non solo di aggressioni ma di frange armate dell’eversione. Il caso Torregiani innescò la cattura, la successiva evasione e la fuga di Cesare Battisti, la cui vicenda viene riproposta dalle controversie sulla sua estradizione dal Brasile.
Ricercato ad oltranza è Il fuggitivo, della celebre serie TV del 1963, nella prima versione italiana Il fuggiasco, con David Janssen, poi incarnato al cinema da Harrison Ford e infine ripreso sul piccolo schermo in un ciclo dal 2000 al 2002 con Timothy Daly. Il dottor Richard Kimble scappa dall’accusa di un delitto che non ha commesso. Al contrario del fuggitivo, l’eroe di un altro ciclo molto celebrato, Il prigioniero. Patrick McGoohan vi interpreta un ex agente segreto recluso in una specie di villaggio turistico dal quale è impossibile evadere. Gli spettatori solidarizzano con lui dandone per scontata la legittima voglia di libertà, perché lo si ritiene immeritevole di una simile detenzione.
Decano di tutti i criminali in fuga resta François Vidocq. Evaso dai bagni penali, è costretto a mille travestimenti per non incorrere di nuovo nelle attenzioni della legge. Ma tale abilità gli risulta utile per dimostrarsi, a sua volta, abile investigatore. Fino a ricoprire incarichi speciali di polizia per conto di Napoleone. La TV francese gli ha dedicato due serie di culto e nel 2001 è uscito il film Vidocq, con Gerard Depardieu.

 

 

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