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I paesaggi del giallo 1: la California è feroce, Milano da duri

Nei thriller le ambientazioni sono come personaggi: iniziamo oggi un viaggio a partire dalle pagine di Hammett, Chandler, Halliday, Dewey fino a Scerbanenco

I paesaggi del giallo 1: la California è feroce, Milano da duri
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20 Settembre 2018 - 06.48


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Enzo Verrengia

I paesaggi del giallo non sono semplicemente scene di crimini ma riflettono l’anima dei luoghi, secondo la bellissima definizione dello psicanalista americano James Hillman. In questo caso, l’anima oscura dei luoghi. E per visitarli non occorrono spostamenti fisici, viaggi all’avventura e turismo fai da te. Basta rileggerli nelle pagine degli autori che li hanno ricreati a partire dal loro radicamento geografico.
A San Francisco, alcune lapidi commemorano i momenti più celebri del giallo dei gialli, Il falcone maltese, di Dashiell Hammett, soprattutto nella sua versione cinematografica del 1941, sceneggiata e diretta da John Huston. Per esempio, una targa è affissa dove una volta si trovava Burrit Alley, al termine di Bush Street, sullo Stockton Tunnel, per ricordare che lì viene ucciso da Brigid O’ Shaughnessy il socio gigione di Sam Spade, Miles Archer. Su quel delitto si innesca la sanguinosa caccia alla preziosissima statuetta del falcone. «Quando qualcuno ti uccide il socio, bisogna fare qualcosa.» È questa la sem¬plice filosofia di base che spinge il detective privato Sam Spade a mobilitarsi per scoprire chi è responsabile del delitto che sollecita la sua coscienza professionale.
La California dell’hard boiled
E più che mai, nella narrativa di Hammett, si palesa una varietà irresistibile di paesaggio del giallo, la California dell’hard boiled. Conosciuta in Italia come “scuola dei duri”, è la deriva metropolitana del poliziesco senza mezze tinte, dove i confini tra buoni e cattivi si confondono in una miscellanea di colori, atmosfere e «solide ragioni», come le definì Raymond Chandler nel suo scritto La semplice arte del delitto. Il creatore dell’investigatore privato Philip Marlowe sosteneva che nelle storie di quel tipo, ed in particolare dell’iniziatore, Hammett, non si uccideva con pesci tropicali velenosi e sostanze tossiche come nei classici inglesi, bensì con pistole, coltelli e altre armi rudimentali, per motivi concreti, quali il denaro, la corruzione, il sesso.
Si prenda un’altra descrizione di San Francisco, in Giungla umana, di David Goodis, autore di culto destinato a gloria postuma. La città è sempre relegata fuori dall’appartamento in cui il protagonista ha trovato precario rifugio dalla polizia che gli dà la caccia per un omicidio. Pure, se ne avverte il respiro umido e feroce. A volte l’uomo si avventura per le strade in cerca di taxi che dovrebbero portarlo da chi potrebbe trarlo fuori dai guai. Ma finisce per incontrare sempre autisti diffidenti che ne smascherano subito la condizione di braccato.
«Il mondo fuori era vuoto e bagnato» scrive lo stesso Chandler in una delle pagine più tormentate de Il grande sonno, dove Marlowe ha commesso l’errore di cedere al fascino di Vivian Sternwood, la figlia del generale che l’ha incaricato di scoprire chi ricatta la sua ultimogenita, Carmen. Non ci si attenderebbe mai la pioggia sui finestrini di un’automobile che vaga nella notte di Los Angeles, calda e secca per eccellenza. Invece Chandler ne coglie un aspetto inedito o lo inventa di suo, con grande efficacia. Tanto da influenzare il futuro stesso della megalopoli californiana così come sarà immaginata nel 2019 di Blade Runner e del sequel, Blade Runner 2049. La pioggia acida del mondo che ha ceduto al clima impazzito è solo il prosieguo di quella chandleriana.
L.A. torrida e violenta
Al contrario, torrida, assolata e impregnata di violenza è la Los Angeles diurna di Brett Halliday nelle storie del suo private eye Mike Shayne. Qui la temperatura hard boiled coincide con quella del piombo fuso dei proiettili che incrociano l’aria afosa. Non a caso, uno dei titoli più celebri del ciclo è Fuoco a volontà. Con Mike Shayne, Brett Halliday obbedisce a un dettame proverbiale della scuola dei duri. Quest’ultima nasce su una rivista, Black Mask, che vide le prime sortite di Hammett e Chandler. Era diretta dal Capitano Joseph T. Shaw, che diceva agli scrittori del suo entourage: «Quando avete dei dubbi su un personaggio, fatelo sparare». All’aperto, sotto i raggi perpendicolari di un sole subtropicale, la mira si prende più facilmente.
D’altronde The Big Heat, il grande caldo, è l’espressione che nel gergo della mala americana indica l’elevarsi del livello di scontro fra criminali e polizia. Logico che ispiri il romanzo di William P. McGivern dal quale Fritz Lang trasse il suo capolavoro del 1953, con Glenn Ford e Gloria Grahame. Il suicidio di un collega induce il sergente Dave Bannion a indagare sulla corruzione tra i colleghi, mentre la colonnina di mercurio sale inesorabilmente insieme al sangue che viene versato.
Il cemento di Chicago e New York
L’hard boiled però non si ferma alla costa occidentale. Passa per Chicago. Nella città di Al Capone ha per suo autorevole rappresentante l’investigatore Mac, che si deve alla macchina da scrivere di Thomas B. Dewey. Emulo di Marlowe, il segugio narra le sue avventure in prima persona e non fa sconti al paesaggio di cemento nel quale si muove. La sua Chicago è implacabile e refrattaria ad ogni compromesso di umanità.
Da Chicago a New York. Quella di Mike Spillane non ha pari negli annali del noir. Il suo protagonista fisso è Mike Hammer, reduce della guerra di Corea, la cui inchiesta d’esordio, Ti ucciderò, consiste proprio nello scoprire chi ha assassinato un suo ex commilitone e vendicarlo. I grattacieli, le strade trafficate, la sovrappopolazione, l’imprevedibile ad ogni angolo, Spillane li riassume in una descrizione lapidaria: «Il respiro della città era un ringhio». La riprenderà Ed McBain nella serie sull’87° Distretto, anche le darà un nome di fantasia, Isola, per essere libero di esplorarne i ghetti, le strade e bar dalla luce livida che ricordano i quadri di Edward Hopper.
Con il giallo d’azione, il paesaggio diviene più incombente nell’architettura urbana, che si presta a ospitare ogni nefandezza e trova la definizione più appropriata in un celebre titolo, Giungla d’asfalto, di William Burnett.
Il maestro dei duri italiani: Scerbanenco
La scuola dei duri ha in Italia un maestro in Giorgio Scerbanenco. Il quale fa muovere i suoi personaggi quasi sempre in una metropoli degna di contrapporsi a quelle americane, Milano. Non certo quella da bere degli anni ’80, che Scerbanenco non vide, perché morì nel ’69. Pure ne colse l’essenza e gli sviluppi che l’avrebbero fatta deragliare verso gli attuali picchi di criminalità. Ecco come la descrive in Traditori di tutti Duca Lamberti, medico radiato dall’albo per aver praticato l’eutanasia e assunto alla questura come investigatore: «C’è qualcuno che non ha ancora capito che Milano è una grande città. Non hanno ancora capito il cambio di dimensioni, qualcuno continua a parlare di Milano come se finisse a Porta Venezia o come se la gente non facesse altro che mangiare panettoni o pan meino. Se uno dice Marsiglia, Chicago, Parigi, quelle sì che sono metropoli, con tanti delinquenti dentro, ma Milano no, a qualche stupido non dà la sensazione della grande città, cercano ancora quello che chiamano il colore locale, la brasera, la pesa, e magari il gamba de legn. Si dimenticano che una città vicina ai due milioni di abitanti ha un tono internazionale, non locale, in una città grande come Milano arrivano sporcaccioni da tutte le parti del mondo, e pazzi, e alcolizzati, drogati, o semplicemente disperati in cerca di soldi…»

 

 

 

 

 

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