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L’abisso di Philip K. Dick, l’inventore degli androidi di “Blade Runner”

Pubblichiamo un estratto da un originale volume di Antonio Trizzino su quattro scrittori, Benn, Walser, Melville, Dick, e sul copilota che schiantò l’Airbus con tutti i passeggeri

L’abisso di Philip K. Dick, l’inventore degli androidi di “Blade Runner”
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3 Febbraio 2020 - 12.43


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Herman Melville, Philip K. Dick, Robert Walser, Gottfried Benn: ai quattro autori, due di lingua inglese e due tedesca, l’editor e saggista Antonio Trizzino ha dedicato un libro alquanto particolare che indaga sul rapporto tra solitudine, disagio e letteratura in cinque saggi, Il punto cieco. Benn, Walser, Melville, Dick, Lubitz. Letteratura e altri abissi (Jiimenez edizioni, pp. 128, € 16).
Il “punto cieco”, avverte l’editore, è quello dove “l’occhio umano non vede: una zona d’ombra nella retina dove non arrivano la luce e le immagini esterne. Per fortuna interviene il cervello a “riempire” quel buco nero: capta informazioni dalle aree dell’occhio circostanti e le proietta su quel vuoto”. Il saggista, che ha insegnato Storia della scienza nella facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma, vuole esplorare il “punto cieco” delle esistenze dei due narratori nordamericani, dello scrittore svizzero, del poeta tedesco, accomunati da “esistenze incontrollabili”, in sostanza da un disagio sociale profondo e non solo individuale. Con un intruso già nel titolo, Andreas Lubitz, il copilota tedesco che schiantò l’Airbus della GermanWings su cui volava in un suicidio in cui oltre a uccidere se stesso sterminò l’equipaggio e 149 passeggeri sulle montagne dell’Alta Provenza il 24 marzo 2015.
Su concessione dell’editore, dal “Punto cieco” pubblichiamo un brano dal saggio su Philip K. Dick (1928-1982), uno dei maggiori scrittori di fantascienza, autore tra l’altro di quel Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?) dal quale Ridley Scott trasse il capolavoro Blade Runner. Come beffa del destino, lo scrittore che visse sempre tra grosse difficoltà economiche non ebbe modo di beneficiare dei diritti per il successo del film: morì per infarto poco prima che la lavorazione finisse e Blade Runner con Harrison Ford conquistasse le sale di tutto il mondo.

Antonio Trizzino, dal saggio “La macchina morbida. Androidi e altre solitudini in Philip K. Dick”

Android Mother
Philip K. Dick nasce in una famiglia pericolosa: suo padre, Joseph Edgar Dick, è un tagliatore di gole di maiali per conto del Ministero dell’agricoltura, sua madre, Dorothy Kindred, una femminista anaffettiva, ma lui chi è? Cosa intende fare della
sua vita? Che cosa fa in realtà? Dove vive? Ma vive? E se vive in questo mondo, cosa piuttosto difficile da sostenere, con chi vive? Certo non si può dire che non sia un tipo interessante, ma trova piacevole tutto questo?
Quando nasce prematuro a Chicago il 16 dicembre 1928, Philip non è da solo; l’argine si è rotto troppo presto e dopo di lui cola fuori anche Jane, sua sorella gemella: in due non pesano nemmeno tre chili e mezzo. Jane morirà quaranta giorni dopo perché la madre ha dimenticato di allattarla. La stessa sorte sarebbe toccata anche al piccolo Phil, se non fosse stato trasferito in ospedale e chiuso in un’incubatrice modello Hess riscaldata a elettricità. Jane verrà sepolta tutta rigida dentro una piccola bara nel cimitero di Fort Morgan, Colorado; sulla lapide, accanto al suo nome, i genitori fanno incidere quello del fratello sopravvissuto, con la data di nascita seguita da un trattino e da uno spazio vuoto. Edgar e Dorothy divorzieranno nel 1933 e Phil verrà affidato alle amorevoli cure materne.

Dorothy si trasferisce con il figlio prima a Washington e poi a Berkeley, dove in piena epoca di diffusione commerciale degli psicofarmaci si segnala “tra i pionieri di questo nuovo Eldorado chimico: via via che venivano messi in commercio, sperimentò Torazina, Valium, Tofranil e Librium”7. Mai Phil è stato amato da sua madre, cosa di cui, probabilmente, non può che rallegrarsi. C’era molto silenzio intorno al piccolo Phil; la strana sensazione di trovarsi al buio sul bordo di una piscina vuota. Una piscina vuota in una villa vuota in un residence vuoto nel nord della California; e, sparsi su tutto, i bagliori dell’orrore.

L’orrore è un affetto dalle molte sfumature: va dal liquido, al muto, al meccanico, all’urlato. La fantascienza è una variante del gotico e perciò è quasi sempre pessimistica; non nasce dalla volontà di esplorare nuovi mondi e nuove forme di vita (Star Trek), ma dall’orrore che brulica nei nostri spazi interni. Quando Dick diventerà famoso, si domanderà cosa significhi essere uno scrittore: e scoprirà che essere uno scrittore significa sottomettersi a messaggi misteriosi; messaggi che stabiliscono senza il minimo margine di errore cosa deve essere fatto. Se questi messaggi implicano la necessità di chiudere con il mondo reale, per imboccare strade nuove senza nessun progetto e nessuna speranza di riuscita, allora sarà impossibile sottrarsi.

Farsi una posizione
Philip K. Dick aveva dimenticato di farsi una posizione; ci aveva provato, ma ogni volta che si avvicinava a una posizione qualcosa di fastidioso gli volava intorno al viso, come una mosca che sente di dover mantenere la propria traiettoria. C’era in lui qualcosa che non gli obbediva più; la sua reputazione era completamente fuori controllo: un pomeriggio, dopo un’oretta di abbracci solitari col cuscino, Phil inizia a comprendere come da qualche anno la sua vita attinga a risorse che non ha mai posseduto. Avrebbe potuto consultare uno psichiatra, che è per definizione il peggior interlocutore possibile perché, qualsiasi cosa gli si dica, non si chiederà se sia più o meno vera, ma soltanto di che cosa possa essere il sintomo. Di fronte alla sublime incapacità di Phil di dire il vero, uno specialista lo inviterebbe a parlare di sua madre, e questo, Phil non può consentirlo.

In un saggio del 1976, Dick scrive:
Nell’universo esistono cose gelide e crudeli, a cui ho dato il nome di “macchine”. Il loro comportamento mi spaventa, soprattutto quando imita così bene quello umano da produrre in me la sgradevole sensazione che stiano cercando di farsi passare per umane pur non essendolo. In questo caso le chiamo “androidi”. […] Mi riferisco a una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con successo per un nostro simile. Che ciò avvenga in un laboratorio o meno per me non ha molta importanza: l’intero universo è una sorta di enorme laboratorio, da cui provengono scaltre e crudeli entità che ci sorridono tenendoci la mano. Ma la loro stretta è quella della morte, e il loro sorriso è di un gelo tombale.

Androidi come madri terribili che ci tengono per mano; la mano di una di quelle creature uscite dal folklore slavo, come Baba Yaga, che spacca il cranio dei neonati per divorarne il cervello. Immagini diffuse in molte culture, se si guarda a un’epoca in cui il patriarcato non si era ancora imposto, in cui il diritto di vita e di morte sulla prole apparteneva alla madre. Nel futuro immaginato da Dick, l’umanità è risospinta in quel mondo brutale.

Confessioni di un artista di merda
Phil è male informato sulla propria vocazione; alla fine degli anni Cinquanta, non vuole più scrivere science fiction. Secondo Anne Rubinstein, la sua terza moglie, in quel periodo Phil non leggeva neanche più fantascienza. Anne era una specialista dei problemi degli altri e aveva la tendenza a trattare gli uomini come una madre tratta i figli: “Dava per scontato che gli uomini erano più fragili, che avevano una vita più corta e che erano meno bravi a risolvere i problemi rispetto alle donne”. Anne aveva fatto il vuoto intorno a Phil: i loro amici erano i suoi, i loro gatti erano i suoi, perfino il loro psichiatra, il dottor Flibe, era il suo; anche la giacca di tweed con le toppe di pelle ai gomiti che Phil indossa nelle occasioni importanti era una sua idea. Secondo Anne, gli dava l’aria di un vero scrittore.

In quel periodo, Dick aveva lasciato Berkeley per trasferirsi a Point Reyes Station, nella baia di Tomales, a nord di San Francisco. “Comprai una casa, traslocai. E poi il cielo mi cadde addosso” scrive al suo editor Anthony Boucher. Le conversazioni con Anne si erano progressivamente stilizzate come quelle di due estranei seduti accanto in aereo e Phil, dopo l’ennesimo divorzio e un periodo di sterilità creativa, scriverà il suo unico romanzo autobiografico, Confessioni di un artista di merda. L’attacco in prima persona è liquido e traboccante come si addice a un crap artist: “Io sono fatto d’acqua. Non ve ne potete accorgere perché faccio in modo che non esca fuori. Anche i miei amici sono fatti d’acqua. Tutti quanti. Il nostro problema è che non solo dobbiamo andarcene in giro senza essere assorbiti dal terreno ma, anche, che dobbiamo guadagnarci da vivere”.

Visionario e ossessivamente preoccupato della sua vita in bilico tra matrimoni falliti, depressioni e farmacodipendenza, PKD si racconta in questo romanzo realistico. La banalità quotidiana è subito infettata da dettagli stranianti, minime incongruenze, spostamenti, equivoci. Nelle Confessioni, Dick rivive nel personaggio di Jack Isidore che aspetta l’invasione degli alieni non dalle stelle, questi megatoni di polvere, ma dalle profondità della Terra. A lui la parola:

Oggi, negli anni Cinquanta, l’attenzione di tutti è rivolta verso l’alto, verso il cielo. È la vita sugli altri mondi che interessa la gente. Eppure, in ogni momento, il terreno può aprirsi sotto i nostri piedi e razze strane e misteriose possono riversarsi nel cuore del nostro mondo. Vale la pena di farci un pensiero, e proprio qui in California, per via dei terremoti, la situazione è particolarmente all’ordine del giorno.

Scritte nell’estate del 1959, le Confessioni si ispirano agli anni di matrimonio con Anne Rubinstein, che i biografi dickiani descrivono come una tipica WASP (white anglo-saxon protestant): conformismo, biondezza, ambizione, zero empatia. Phil era ossessionato dai simulacri artificiali che avevano conquistato l’immaginario americano; e Anne era l’ennesima variante della donna seduttrice e gelida che lui, per una specie di tara matrilineare, sognava di possedere.
La sua figura ricorda la Barbie, la linea di fashion doll che all’inizio del 1959 aveva invaso il mercato americano con le sue enormi riserve di inautentico.

Scrive Emmanuel Carrère, biografo di PKD: “Per guadagnare quello che Anne considerava comunque poco, gli toccava lavorare a ritmi serratissimi. Le anfetamine gli permettevano di scrivere, se si impegnava al massimo, un romanzo in poche settimane; in due anni ne pubblicò una decina, ma a prezzo di atroci periodi di depressione. Si sentiva inadeguato, incapace di assumersi le sue responsabilità. Imbruttiva. Sotto la barba la sua faccia era diventata livida e gonfia”.
Phil si vendicherà dedicando ad Anne il romanzo La svastica sul sole: “A mia moglie Anne, perché senza il suo silenzio questo libro non sarebbe mai stato scritto”.

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