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Trauma e perdono: le conseguenze delle violenze sui bambini

Al Festival della psicologia a Torino la psicoterapeuta Clara Mucci parla del suo saggio “trauma e perdono”. Ecco il suo intervento

Trauma e perdono: le conseguenze delle violenze sui bambini
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5 Aprile 2018 - 11.05


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Come si perpetrano violenze, sofferenze e disturbi subiti da bambino, anche per mancato accadimento. Clara Mucci è professore ordinario di Psicologia clinica all’Università di Chieti e psicoterapeuta: pubblichiamo di seguito una sintesi scritta per globalist.it del suo intervento (dal saggio “Trauma e perdono”, Raffaello Cortina Editore) al quarto Festival della Psicologia (www.psicologiafestival.it). La manifestazione è in calendario da venerdì 6 aprile alle 18 alla Cavallerizza Reale di Torino, con la nuova direzione scientifica di Massimo Recalcati. Il festival, organizzato e promosso dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte, prosegue fino a domenica 8 aprile con incontri, conferenze, dialoghi gratuiti con psicoanalisti, filosofi, scrittori e intellettuali. Il tema è “Io non ho paura” ed è messo in relazione anche con i fenomeni terroristici .

 

Clara Mucci

 

È più grave il trauma causato da una persona cara

1. Inizierei con il sottolineare la differenza tra trauma da mano umana (abuso, stupro, maltrattamento, guerra, genocidio) da trauma dovuto a catastrofe naturale (quindi senza intenzione umana malevola): il bambino non sviluppa dissociazione dopo un terremoto o uno tsunami, mentre la dissociazione si sviluppa a seguito di anni di maltrattamento e abuso, specie nelle mani di un caregiver: le conseguenze per la psiche umana sono più gravi se è implicata una relazione umana, massime se è implicato un caregiver, una figura di attaccamento, che dovrebbe soccorrere, aiutare, far crescere, portare sollievo. In questo caso, è talmente grave che per la coscienza pensare che il caregiver è “cattivo” è più duro che pensare “sono io cattivo”. Questo era già nella lezione di Ferenczi (dal Diario Clinico, 1932), cioè ai tempi di Freud, ma c’è voluto quasi un secolo perché Ferenczi venisse ripreso e il suo contributo accettato, perfino dentro la psicoanalisi, per affermare la REALTÀ delle conseguenze negative della traumatizzazione o della violenza ripetuta da parte di un altro essere umano. Il trauma lede una fondamentale fiducia nell’essere umano che invece è essenziale a vivere. (Dori Laub, sopravvissuto alla Shoah e psicoanalista ebreo americano parla di “rottura della diade empatica”, in altre parole, si è distrutto l’oggetto interno buono a cui è collegata la fiducia; nel caso sia un caregiver a compiere il male, quell’oggetto interno buono non può formarsi, ed è il tormento e il calvario dei disturbi di personalità – borderline, narcisismo).

Mancato accudimento

2. I livelli di traumatizzazione che riassumo in Trauma e perdono (Cortina, 2014) sono essenzialmente tre:
A. Primo livello: Trauma relazionale infantile: quando la madre o il caregiver non riescono a fornire il giusto contenimento affettivo e il sensibile e continuativo accudimento che portano a una possibilità di regolazione affettiva; dalla regolazione affettiva dipendono l’immagine di sé, l’autostima, la possibilità di controllare gli impulsi distruttivi; di qui, nell’adolescente e poi nell’adulto possiamo avere la tipica sintomatologia borderline, con alti e bassi di umore, relazioni affettive caotiche e distruttive, compulsività con il cibo, uso di alcol e droghe per cercare effetti autoregolatori e con la presenza di altre forme di attacco al corpo, come autolesionismi, tentativi di suicidio e così via.
B. Secondo livello: Attivo maltrattamento e abuso, oppure grave deprivazione emotiva (il bambino è lasciato da solo oppure viene attivamente maltrattato); oltre alla sintomatologia e alla disregolazione affettiva del punto A, abbiamo anche quello che chiamo, in parte riprendendolo dalle teorie sul trauma di Ferenczi, “identificazione con l’aggressore”; cioè il bambino e poi l’adulto prenderanno dentro di sé attraverso un processo di identificazione le emozioni negative dell’abusatore, mettendo dentro da una parte colpa e vergogna, dall’altra aggressività e violenza, con la possibilità di ripetere il male e la violenza su di un altro (forme di esternalizzazione, più comuni nei soggetti maschi) oppure dirigendola contro di sé, con rivittimizzazioni più comuni nei soggetti femminili (ma le donne possono ripetere le violenze subite o diventando “cieche” alle violenze che le figlie o i figli subiscono da un altro caregiver, oppure diventando loro le attive persecutrici dei figli), in un ciclo pericoloso che solo la coscienza del danno subito può interrompere.
Questi cicli di violenza sono passati da genitore abusato al figlio anche solo attraverso il legame di attaccamento, con forme dissociative che passano da genitore a figli attraverso l’accudimento e lo stabilirsi di un legame di attaccamento, che può essere insicuro o disorganizzato. In quello disorganizzato, viene creata una strutturale vulnerabilità alla dissociazione, con possibile ripetizione del trauma in sé e nell’altro attraverso comportamenti dissociati, che secondo la neurobiologia e le neuroscienze (Allan Schore) dipendono da comunicazioni non consapevoli tra emisfero destro del caregiver e emisfero destro del bambino;

Trauma di massa e violenza collettiva

C. Terzo livello: trauma massivo e violenza collettiva, come nelle torture di guerra, nei genocidi e nelle guerre; la traumatizzazione riguarda la collettività, con risvolti sia individuali che collettivi.
La cosa importante da ricordare è che i tre livelli possono cumularsi, e nel caso di attaccamento disorganizzato tra genitore e figlio viene a mancare la naturale protezione che agirebbe da cuscinetto verso gli effetti traumatici dovuti agli altri livelli massivi e collettivi; inoltre, ricordiamo che l’attaccamento sicuro (quindi il buon accudimento infantile) costituisce la prima forma di resilienza e di protezione contro future traumatizzazioni, sia di mano umana che derivante da catastrofi naturali e agenti non umani (come il terremoto o lo tsunami).

 

 

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