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Quello che ancora ci dicono le lettere di Don Milani

Nel giorno del suo centenario il Presidente Mattarella ha ricordato quanto la Costituzione rappresentasse il suo vangelo laico e quanto vedesse la scuola e il suo valore sociale come ottavo sacramento.

Quello che ancora ci dicono le lettere di Don Milani
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Marialaura Baldino Modifica articolo

28 Maggio 2023 - 11.39


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Il 27 maggio di cento anni fa nasceva Don Lorenzo Milani. Ieri mattina, a Barbiana, il capo di Stato e il presidente della conferenza episcopale lo hanno ricordato durante le celebrazioni.

Al priore piaceva scrivere lettere. È così che l’ho conosciuto, nella chiare e salde parole che rivolgeva alla madre, quando con candida fermezza le descriveva la vita tra San Donato e Barbiana, pregandola di ravvedersi dal dire che la sua presenza li, nel cuore del Mugello, fosse solo temporanea.

Un esilio diventato una missione di vita: quella di restituire, attraverso la scuola, l’eguaglianza che la società non rende e riconosce a tutti i cittadini, educando i giovani al rispetto delle regole – quelle che sono a salvaguardia e perno di forza per i deboli – insegnando loro il valore della ribellione e dell’obiezione di coscienza nei confronti delle ingiustizie e delle disparità.

Nell’ottobre del ‘65 è stata solo la malattia a fermarlo dall’essere presente in aula per l’ascolto da parte del tribunale di Roma.

Anche in quel caso scrisse una lettera, ai cappellani militari della Toscana e ai giudici che consideravano i suoi insegnamenti sull’obiezione “un insulto alla patria e ai suoi caduti che, estranea al comandamento cristiano dell’amore”, ”un’ espressione di viltà”.

Alle accuse rispose: ‘’Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.

    Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego»’’.

È, però, con lettera ad una Professoressa, nel 1967 a poche settimane dalla sua morte, che ha sancito un vero e proprio trattato deontologico per gli educatori. Un libro pensato e scritto insieme ai pochi alunni di Barbiana, ai quali diceva di aver voluto più bene che a di Dio; un volume scritto in un italiano semplice, ma chiaro e perentorio, che ha reso il protagonista, lo scolaro Gianni, testimone persuaso di fede nella scuola, simbolo di tutti i figli delle classi povere ai quali era limitato l’accesso all’istruzione.

Don Milani aveva capito, già sessant’anni fa, che fare scuola significa anche educare alla cittadinanza, abbattere le barriere divisive tra le classi sociali reintegrando gli emarginati; significa istruire gli studenti affinchè diventino consapevoli cittadini, abolendo all’interno delle aule quell’elitarismo sociale e culturale rendendole un luogo sicuro, dove ‘la cosa più ingiusta è fare parti uguali tra disuguali’.

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