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Studentessa diciannovenne: un’altra vita spezzata dalla stigmatizzazione del successo

Dopo la morte della studentessa avvenuta alla Iulm di Milano, si rende necessaria una profonda riflessione sulle aspettative sociali e sul mostruoso modello di perfezione che altro non provoca che immani tragedie.

Studentessa diciannovenne: un’altra vita spezzata dalla stigmatizzazione del successo
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2 Febbraio 2023 - 21.12


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di Marialaura Baldino

A diciannove anni, non si può conoscere il fallimento, quello che ti lascia senza respiro e senza via d’uscita. Non si può conoscere specie nell’Università che è un’istituzione che dovrebbe essere, innanzitutto, luogo di crescita personale, di palestra sociale; luogo di discernimento e apprendimento, di sviluppo sociale e di discussione. No, non può essere un posto dove gli studenti si rifugiano per porre fine alla propria vita.

A diciannove anni si dovrebbe conoscere la gioia degli incontri, il bello dell’apprendimento, l’inquietudine degli amori e la leggerezza del vivere ogni ora come fosse preziosa. Il pensare di avere un domani che potrebbe riservarti chissà quali momenti ai quali aggrappare preziosi ricordi.

Non servono ora, dopo le lunghe pause di convivenza alle quali siamo stati costretti dall’infido Covid, altri   momenti di silenzio e di lezioni sospese. L’Italia intera, il mondo – senza esagerare – dovrebbe fermarsi e chiedersi: “dov’è che noi abbiamo fallito?

La rincorsa all’eccellenza, al vinca il migliore e a chi arriva primo deve finire. Subito. Il modello della perfezione a tutti i costi non funziona e gli effetti che provoca nei ragazzi e nelle ragazze che lo anelano possono essere devastanti. E non parlo soltanto degli obbiettivi accademici, ma anche e soprattutto di quei presupposti d’identità personale che la società, la cultura e le famiglie vorrebbero vedere esauriti.

Quanti altri giovani dobbiamo perdere prima di capire che non sono avvenimenti singoli, ma tragedie condivise perché mosse da sentimenti condivisi? Sono 200, ogni anno e in Italia, i suicidi di ragazzi al di sotto dei 24 anni (n.d.r. Fonte Istat). La pandemia non ha lasciato scampo e ne abbiamo visto gli effetti, ma non è più da considerarsi una causa prima, a meno che non se ne analizzino gli effetti a lungo termine.

L’enormità del divario sociale, del malessere psicologico e l’ansietà generalizzata, se prese in esame, non possono  che non sottolineare la trasversalità di questi tragici accadimenti. La strategia del performante eccelso, la volontà della costruzione esagerata del super-io non plasma geni ma rende vulnerabili, ansiosi, preoccupati di non attendere le aspettative.

Lo studio, come l’amore, come il lavoro, come la vita, non è una gara a chi arriva primo.  Sono gli anni in cui si forma una coscienza critica e un sapere che poi risulterà decisivo quando si dovrà affrontare il lavoro e la partecipazione sociale. Non serve a niente celebrare pochi e finire primi in classifica se poi il resto del mondo cade a terra. Il dibattito sulle (sbagliate) aspettative comunitarie deve necessariamente essere riaperto. Non importa quanto alienante possa essere, o quanto in profondo vada a scuotere le fondamenta dello stato.

Nessun grido dovrà più essere ignorato; nessun dolore dovrebbe essere più forte della voglia di vivere. Nessuno, a 19 anni, dovrebbe scomparire per colpa di una logica distorta che continua a far pesare i presunti fallimenti come fossero una colpa. Responsabile è una società buia dove i giovani vedono sempre meno splendere il sole.

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