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Il futuro non si può delegare

Prendere consapevolezza che il mondo non ha i colori sgargianti della plastica ma quelli naturali è questione sociale ma soprattutto individuale. I giovani rimproverano padri e nonni.

Il futuro non si può delegare
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17 Ottobre 2021 - 17.50


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di Marcello Cecconi

L’invito del nostro giornale a tutti i giovani e (meno giovani) studenti-redattori è perentorio: non scrivere del problema ambientale con distacco, con captatio benevolentiae ma digitare flussi di coscienza come se si fosse sul lettino dello psicanalista. Insomma, immergersi in prima persona senza mai scendere nel bla bla bla, fortunata espressione onomatopeica usata da Greta Thunberg e dedicata ai grandi della terra con un successo mediatico superiore a quello che ebbe Montale, il poeta che la usò con lo stesso intento, in una poesia dedicata al ricordo della moglie: “eri un insetto miope, smarrito nel blablà dell’alta società”.

Il discorso di Greta Thunberg al “Youth4Climate” di Milano

Vediamo la cosa dal punto di vista dell’Italia, magari partendo da un po’ lontano. Impegnati a superare le rovine della Seconda Guerra Mondiale che come sappiamo fu catastrofica, il Paese si gettò a capofitto nell’industrializzazione selvaggia, creando gigantesche periferie sia nelle piccole che nelle grandi città. Un’industrializzazione che era incontrollata ma anche così esaltante dal punto di vista economico e sociale tanto da creare nuovi agognati stili di vita. Sono gli anni del famoso boom. Così si spopolarono colline, pianure e montagne che lasciate nell’oblio cominciarono a vendicarsi, a inviare messaggi di un “fico da pagare” alle arroganti ed egoiste città che mandavano al diavolo legno, rame e alluminio, autoinvadendosi di cose sgargianti fatte di prolipopilene isotattico, il Moplen caroselliano di Gino Bramieri. La plastica. Quella che valse al suo inventore, Giulio Natta, il Nobel per la chimica del 1963. Quella plastica che è ancora oggi lì, troppo comoda e utile per farne a meno.

Il Carosello sulla plastica
 
E allora non resta che confessarsi andando con la memoria nel passato. 
Nel mio ricordo, all’inizio degli anni Settanta, cominciò Greenpeace con quella nave spedita nell’Artico a fermare dei test nucleari, a portare i temi dell’ambiente nell’agenda internazionale. E nel mio subcosciente. Guardavo a questi strani personaggi in tv con lo stesso stupore di come guardavo al Festival dell’Isola di Wight: un qualcosa di stupefacente ma lontano, fuori dalla mia realtà e dalla frenetica vita quotidiana. Noto, a distanza di cinquant’anni, che tutto è peggiorato: inquinamento, difesa del suolo, risorse naturali e clima. Insomma quello sviluppo sostenibile che l’Onu ha cercato di far promuovere è ancora al palo, ovvero i progressi che ci sono stati- e ci sono stati- hanno effetti così lenti rispetto alla propagazione dei danni che la globalizzazione ha accelerato. Un bilancio pericolosamente negativo.

I poteri politici, economici, culturali e mediatici del pianeta hanno fatto troppo poco per promuovere o “condizionare” i comportamenti individuali e sociali, con continui ed egoistici conflitti d’interesse sempre più vergognosamente partigiani.
 
Se però la consapevolezza nelle istituzioni oggi tende ad aumentare, lo si deve anche a quei movimenti che impongono ai media la trattazione di questi argomenti attraverso frequenti manifestazioni di giovani e giovanissimi di tutto il mondo. I ragazzi, ci rimproverano di fare spallucce al problema con la scusa che lo immaginiamo superiore alle loro e nostre forze. Sono però convinto che loro sono e saranno determinanti nel costringere il potere politico, e tutti noi individui, ad agire con più credibilità.  È lampante che i “Fridays for Future” non sono soluzioni ma, almeno, pillole amare di sana educazione che figli e nipoti ci spediscono sempre più in continuazione. Anche con troppo garbo ci ricordano che l’equità fra generazioni non è il nostro punto di forza e la ragazzina Greta, diventata icona del loro “rimprovero” è sicuramente un’operazione riuscita nell’ambiente mediatico della perenne connessione. 

Quando mi guardo dentro, e adesso lo faccio più spesso, mi riconosco una consapevolezza più marcata del problema rispetto a qualche anno fa. Ma, inutile negarlo, nuoto senza salvagente nel mare della più comune diffidenza quando mi sforzo di credere che il potere politico possa trasformare l’economia globalizzata in economia ecologica nell’arco dei prossimi trent’anni. Non c’è solo l’Occidente del libero mercato da riciclare, ma anche l’Oriente compresa quella sconcertante e sorprendente macchina schiacciasassi dell’economia socialista di mercato della Cina. Quanto lavoro c’è da fare.

Lo spauracchio della pandemia a qualcosa potrebbe giovare. Con i problemi sociali ed economici che ha creato non si trova più in  giro un economista sostenitore del puro libero mercato alla Smith, o se preferite alla Thatcher, ma si dà per scontato ovunque l’intervento del pubblico a sostegno del mercato. Ecco, questo potrebbe essere il momento, per il potere politico, di forzare la mano a più rapide soluzioni verso l’ecologia, ma il potere politico è costituito da partiti con tanti interessi in gioco (leggi voti) che, molto spesso, non hanno interesse per tutto ciò che non è troppo tangibile nell’immediato.

E poi c’è l’uomo, ci sono io, individuo sociale che non riesco a fare passi concreti nella decrescita felice e inconsapevolmente mi lascio cullare da teorie darwiniane.  Comunque da tempo tengo chiuso il rubinetto mentre mi lavo i denti e resto sotto la doccia il tempo di ascoltare su Spotify una sola traccia, non più di tre minuti e mezzo. Greta, non guardarmi così, lo so, è un po’ poco!

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