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Le quarantene sono state da sempre un rimedio. Solo il vaccino fa la differenza

La quarantena è pratica antica, già variamente sperimentata durante le pestilenze del Trecento quando il 70/80% di chi contraeva la malattia moriva nel giro di tre, quattro o sette giorni

Le quarantene sono state da sempre un rimedio. Solo il vaccino fa la differenza
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Gabriella Piccinni Modifica articolo

21 Marzo 2021 - 19.43


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E’ ormai esperienza concreta e dolorosa per tutti che la pandemia ha ristretto e soffocato i nostri spazi di vita e di relazione. Ha reso più angusti i nostri spazi personali, quando i contagiati dalla malattia si sono trovati in isolamento sanitario all’interno delle proprie abitazioni per un tempo che, iniziato con qualche settimana, talvolta si è prolungato oltre il mese. Ha reso quasi inesistenti gli spazi collettivi, quanto le autorità pubbliche hanno attuato, in mezzo alle resistenze, una prevenzione del contagio attraverso un sistema di restrizioni alla mobilità, di varia durata e intensità. Un anno fa quelle restrizioni sono state molto più rigide ed ec vstese a tutto il territorio nazionale: come dimenticare i giardinetti e i parchi chiusi, i divieti di spingersi anche da soli e ‘mascherati’ al di là di poche centinaia di metri dall’abitazione, le dispute sulle seconde case, le corse per prendere il treno, le polemiche sui cani recalcitranti trascinati al guinzaglio o sulla passeggiata salutare.

A mano a mano che abbiamo cominciato a conoscerne meglio i meccanismi, le restrizioni sono divenute più flessibili e diversificate a seconda dei luoghi e delle fasi di maggiore o minore virulenza della malattia (le famose ondate). Ne sono nate le zone colorate che, utilizzando una sorta di pantone sanitario che va dal giallo al rosso scuro, hanno modernizzato la pratica della quarantena, in attesa che la vaccinazione di massa ci restituisca la nostra preziosa vita di relazione senza la quale ci sentiamo perduti.

La quarantena è pratica antica, già variamente sperimentata durante le pestilenze del Trecento quando il 70/80% di chi contraeva la malattia moriva nel giro di tre, quattro o sette giorni al massimo. Allora i rimedi erano davvero pochi, cataplasmi, aromi da mettere sotto il naso, misture di erbe, impiastri da applicare sui bubboni. 

Giovanni Boccaccio, testimone dei fatti del 1348, raccontò che nella sua Firenze sembrava che nessun rimedio potesse far fronte al male, né consiglio di medico né virtù di medicina, anche se a cercare rimedi si applicavano non solo i medici con molti consigli dati a conservazione della sanità ma anche un buon numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai.

I governanti, i medici e anche questi medicastri, tuttavia, anche se non erano in grado di curare, dimostrano di aver avuto una capacità straordinaria di descrivere e affrontare la malattia con l’unico strumento che avevano a disposizione: la prevenzione. È ancora Boccaccio a raccontare del blocco della mobilità a Firenze (fu vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo), ma provvedimenti simili furono presi a Venezia, Pistoia, Siena, Orvieto e in tanti altri luoghi dove già nella prima ondata furono istituiti comitati per affrontare l’emergenza. Si vietarono gli spostamenti di persone e merci verso le zone dove si sapeva che l’infezione era più forte, si bloccò l’importazione di stoffe, si sorvegliarono le porte. In qualche città furono emanate delle norme igieniche sulla macellazione e la vendita della carne. 

Le prime forme di quarantena consistettero, insomma, nel divieto di spostamento per i malati. Ci si trovò però subito a fare i conti con uno degli eterni problemi di fondo, cioè la violenta contraddizione tra tutelare della salute e tutelare la vitalità dell’economia, perché bloccando le persone malate si bloccavano anche gli scambi commerciali, grande veicolo di contagio ma anche motivo di ricchezza. A Firenze si vietò ai cittadini di entrare in contatto con genovesi e pisani, naturalmente a motivo delle attività del porto di quelle due città, e di vendere gli abiti dei morti di peste. Venezia provò a vietare ai propri cittadini malati di rientrare in città ma il provvedimento non fu applicato proprio per gli interessi commerciali in ballo.

Anche se i risultati furono pochi e le epidemie continuarono a colpire a ondate successive per alcuni secoli, queste disposizioni costituirono dei precedenti importanti perché introdussero il concetto che spettava all’autorità pubblica l’onere di decidere e far rispettare le misure preventive e di gestire l’emergenza. 

Ragusa (oggi Dubrovnik) pare che sia stata la prima a mettere in atto una quarantena, quando nel 1377 per la prima volta vietò di attraccare nel suo porto alle navi provenienti da zone appestate, che furono lasciate per un mese alla fonda. La città bloccò anche le persone e le merci provenienti da terra facendole sostare, sempre per un mese, in una località costiera a una decina di miglia di distanza, dove furono allestite delle baracche di legno che venivano poi bruciate al termine del periodo di isolamento. 

Milano nel 1398 proibì ogni contatto con Soncino, dove infuriava la peste, vietando in maniera tassativa a chi provenisse da quella località di attraversare l’Adda. I milanesi usarono dunque il fiume per un cordone sanitario naturale. Fu rinviata anche la fiera di Sant’Ambrogio per impedire gli assembramenti. 

Altrove furono chiuse le taverne e le attività commerciali, eccetto le vendite di alimentari e di prodotti di farmacia. Quasi ovunque a ogni nuova ondata si vietava di partecipare ai funerali e alle messe alle quali si poteva assistere solo dalle finestre delle case. A partire dal XVI secolo a Palermo, Milano, Firenze, Genova, a Napoli divenne comune anche chiudere le scuole e obbligare in casa donne e bambini.

E dunque, davvero, la differenza la fanno solo i sistemi sanitari più evoluti e la vaccinazione di massa, che per fortuna la scienza ci sta mettendo oggi a disposizione. Diversamente vivremmo questa pandemia con strumenti non molto diversi da quelli che quasi sette secoli fa bloccarono la socialità dei nostri antenati e la vitalità della loro vita economica.

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