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Sideri da drammaturgo a scrittore: "Narro la Romagna pensando a Fellini e Bertolucci"

In occasione dell'uscita del suo primo romanzo "Ernesto faceva le case", l'autore ravennate dice: "Ho plasmato il libro come Macno, mezzadro, plasmò casa sua"

Sideri da drammaturgo a scrittore: "Narro la Romagna pensando a Fellini e Bertolucci"
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16 Settembre 2021 - 09.06


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di  Giuseppe Castellino 

A inizio 2021, il regista e drammaturgo ravennate Eugenio Sideri entra ufficialmente nel mondo della letteratura con il suo primo romanzo Ernesto faceva le case (edito da Edizioni Pendragon, 159 pagine, brossura) disponibile in libreria e nei maggiori store online al prezzo di 15€. Il libro narra la storia della famiglia Stringos durante tutte le sue generazioni (partendo dall’inizio del ‘900 e arrivando fino ai nostri giorni) e della Romagna, co-protagonista tra le righe del romanzo. Di generazione in generazione, i mattoni delle loro storie vengono piano piano incastrati fino ad arrivare al compimento finale.
Da dove parte questo libro e qual è la sua genesi? Quanto è stato importante il territorio della Romagna e di Ravenna?

Il territorio è stato fondamentale perché questo libro racconta di una zona precisa della Romagna, le Ville Unite tra San Zaccaria, Castiglione e S. Pietro in Vincoli, che è poi la zona dove io sono nato. È una sorta di terra di mezzo tra Ravenna e Cesena, ed è la Romagna della pianura dove sono nato e cresciuto da piccolo e dove poi ho raccolto nella mia memoria visi, luoghi, odori, sapori, aneddoti e personaggi che successivamente sono diventati parte della mia memoria e anche di questo libro. Sicuramente non parto dalla città ma delle mie “terre piatte dalle grandi nebbie” dove io ho camminato. Il romanzo inizia nel 1870 e, anche se io sono un classe ’68, ripensando a quei luoghi mi pare di tornare indietro di un sacco di tempo perché la zona si è trasformata molto anche a partire da quei nebbioni che non ci sono più. Però non ho nessun rimpianto riguardo a queste storie, o almeno cerco di non averlo.

I libri sono spesso una commistione tra realtà e finzione. In questo libro quanto c’è di reale? C’è qualcosa di autobiografico?

Di reale c’è molto, anche di biografico c’è tanto se lo intendiamo per ciò che ho sentito raccontare. Chiaramente io sono nato in un momento in cui la campagna si stava già evolvendo. C’è tanta verità e tanta biografia delle persone che mi sono state intorno. Però c’è anche tanto rimpastamento e fantasia. Forse, la parola giusta è verosimiglianza, anche laddove è pura e totale invenzione. Per esempio, la storia alla base del mio libro non l’ho mai sentita ed è completamente inventata. Però credo di averla resa molto verosimile.

Quale potrebbe essere, tra le tante storie che ha raccolto, quella più verosimile?

Un episodio vero c’è che però ho ricucito anche se rimane secondario ai fini del racconto. Le faccio però un esempio. Prenda la storia di zio Michele (personaggio del libro) che viene ucciso dai fascisti e impiccato all’albero davanti casa per poi essere vendicato dal padre e dai fratelli: quella non è vera ma di storie molto simili purtroppo ce ne sono state. Una storia vera invece è quella del sergente Mastino che, durante la guerra di Russia, viene colpito da un proiettile che lo fora da guancia a guancia. Il suo compagno lo prende e lo porta in braccio mentre il freddo cauterizza la sua ferita e così si salva. Mio nonno mi raccontò che durante la guerra aveva salvato la vita ad un uomo che venne colpito da un proiettile che lo trapassò da guancia a guancia. Un giorno suonò alla porta di casa un uomo con gli stessi segni del foro del proiettile nella guancia. Va da sé che da quel giorno in poi vidi mio nonno come un vero eroe.

Parlando di lei, dove nasce la sua voglia di scrivere? E in particolare scrivere questo libro

Scrivere per me è un’esigenza che ho addosso da quando sono adolescente, l’esigenza di dirsi al mondo. Quasi banalmente il poter raccontarsi al mondo, anche gridandolo. Le parole su questo sono armi meravigliose. Io iniziai scrivendo poesie, ma avevo un bisogno così forte di comunicarle (ricordo che siamo negli anni ’80 e internet era pura fantascienza) che adottai una soluzione molto punk: scrivermele addosso, sui vestiti o sui muri. Poi è diventato un mestiere ma l’esigenza rimane.

Questa esigenza interiore poi si è anche trasposta a teatro, visto che sei anche regista e drammaturgo?

Certo. Anzi, è stato un passaggio quasi naturale. Quando io incontrai il teatro a 21 anni venivo già da qualche anno in cui scrivevo e facevo quelle che poi in fin dei conti erano performance, anche se non sapevo bene cosa fossero all’epoca. Mi mettevo assieme a degli amici che suonavano mentre io dicevo le mie poesie. È una performance o un’ esibizione? E lo facevo nei luoghi più assurdi. Ma avevo sempre il bisogno di farlo, non era un metodo per catturare le donne sulla falsariga della figura del poeta maledetto. Tutt’altro, quando ho visto che il teatro mi dava una possibilità molto più forte di trasmissione, quando la parola diventa carne nell’attore che a sua volta si incarna nella scena esplode. Diventa una roba fantastica. Pure nel cinema anche se non mi è mai interessato come linguaggio. Se io scrivo una poesia, la do a lei e solo lei la legge. Se invece scrivo un testo teatrale sicuramente ho più di uno spettatore. È una questione di platea che si amplifica e si amplia. Io volevo comunicare ed ero felice quando il destinatario aumentava, ho visto proprio il medium del teatro che mi permetteva di uscire dalle pagine. E poi ancora il teatro mi permetteva di unire tutti i miei amori: l’arte, la musica, il corpo e le parole. Il teatro è un’arte compiuta come diceva Wagner.

Questo libro ha qualche debito con qualcuno? Sia come scrittura che come storie

Il debito maggiore è verso i miei nonni e la mia famiglia anche se erano molto diversi tra loro (i secondi laureati mentre i primi dei semplici mezzadri). Poi ho anche un paio di persone che ho ringraziato alla fine del libro perché hanno creduto in me. Il mio lavoro era un manoscritto nel cassetto, e forse sarebbe rimasto lì se quelle persone non l’avessero letto. Io ho mandato il manoscritto forse per fare più contente queste persone che me, e hanno avuto ragione. Il mio editore Bagnoli della Pendragon mi ha scritto tre settimane dopo aver mandato il manoscritto dicendo che voleva assolutamente pubblicare il libro. Ho pensato “cavolo, forse nonostante i miei 53 anni ho scritto qualcosa che vale”. Credere in sé stessi è una gran fatica perché pensi che ci sarà sempre gente più in gamba di te. Mia sorella, una di queste persone, mi ha sempre stimolato e mi sta anche aiutando a farlo viaggiare in Europa. L’altro grande debito è verso la grande Letteratura. Io devo moltissimo a Bacchelli e il suo Mulino sul Po, un romanzo storico che mi ha aiutato moltissimo. Ho letto anche Evangelisti suo contemporaneo, anche se mi sento più vicino al primo. Questi personaggi a cui succedono delle cose quasi impossibili, al limite del felliniano.

Si riconosce un po’ nel nonno di Ernesto? Lui ha costruito la casa mentre lei ha costruito il libro

Macno (il nonno di Ernesto, ndr) è il mio personaggio preferito. Io ho plasmato il mio libro come Macno ha plasmato la sua casa, è come se fossi le sue mani. Anche se le parole sono di suo nipote Ernesto, Macno fa e lo trasmette alla sua discendenza. C’è quest’azione continua di impastare e costruire, tant’è che ad un certo punto anche la memoria iniziamo a forgiarla e scegliamo come raccontarla. Il terzo grande debito è verso un grandissimo della letteratura come Garcia Marquez con i suoi Cent’anni di solitudine, al quale io non mi sento degno nemmeno di allacciargli le scarpe. Questi grandi alberi genealogici pieni di storie che non finiscono più, e non è un caso che questo aspetto felliniano sia molto presente nella letteratura sudamericana dove il reale e il fantastico si mescolano.

Secondo lei, c’è un film che si avvicina a questo libro?

Film che possono ricordare il mio libro o al quale io mi sono ispirato sicuramente ci sono: Amarcord di Fellini, L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi e anche Novecento di Bertolucci. Quello che però mi sento di dire è che lo spirito del mio libro si avvicina di più alla Casa degli spiriti di Isabel Allende. Dentro questo libro ci sono dei particolari che io personalmente adoro. È dai dettagli che io parto e costruisco. Poi ci sono scrittori che io amo tantissimo come Sàndor Marai dove in lui la fabula e l’intreccio sono quasi elementi superflui, diventano spunti per riflettere in maniera profonda. Una pagina io la leggo anche due o tre volte, ma non è pesante. Lui pensa e fa pensare i suoi personaggi. Uno dei dettagli più belli per me è nello scrivano di Melville Bartleby, dove lui inizia a rifiutare commissioni che gli chiedono con la frase “Preferirei di no”. Poi a furia di ripetere questa frase smette di lavorare del tutto fornendo come spiegazione la stessa frase. Penso che il dettaglio sia un punto focale anche nel mio libro.

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