di Vittoria Maggini
Novant’anni fa nasceva Alda Merini. E’ un segno che questo anniversario cada proprio in occasione della Giornata Mondiale della Poesia e del primo giorno di primavera. Basta citare un suo verso, forse, per capirne il perché: “Sono nata sotto il ventuno a primavera/ ma non sapevo che nascere folle, /aprire le zolle /potesse scatenar tempesta”. A 15 anni già scriveva poesie negli anni poveri del dopoguerra. Giovanissima, il suo poetare riscuoteva i suoi primi riconoscimenti, tanto da essere inserita nell’Antologia italiana del Novecento 1909-1949, curata da Giacinto Spagnoletti e, nel 1954, in una importante scelta di Piero Chiara e Luciano Erba che all’epoca erano già riconosciuti come giovani talenti della letteratura. Già da allora usciva dagli schemi imposti dall’epoca caratterizzandosi semmai – come scrive Maurizio Cucchi -per una forma di “naturale orfismo”, come del resto è detto nel titolo della prima raccolta. Un raro esempio di lirica antimoderna.
Il suo secondo mondo, e il suo periodo poetico, fu segnato dalla grave sofferenza personale. Da giovane aveva incontrato “le prime ombre della sua mente”, il cui nome era disturbo bipolare. Inevitabile la conseguenza del suo primo internamento in un manicomio. In un’epoca in cui Franco Basaglia non era ancora apparso sulla scena pubblica con la sua legge per l’abolizione degli ospedali psichiatrici, la “poetessa dei Navigli” subì sulla propria pelle le umiliazioni che quel secolo ancora imponeva a chi soffriva di disturbi mentali. Il primo soggiorno forzato nella clinica Villa Turro a Milano durò un mese.
Nel 1964, per volere del marito, venne internata nell’ospedale psichiatrico “Paolo Pini” di Milano dove rimase circa 12 anni (due delle figlie vennero date in affidamento). È proprio in quegli anni che la Merini cominciò a suddividere il mondo in “dentro” e “fuori” dal manicomio, testimone diretta degli orrori che avvenivano all’interno di quelle mura, in un tempo in cui i “diversi” erano nascosti dalla società, per non creare scandalo: “Questo emarginare la persona ritenuta malata. Il giudizio sulla persona malata di solito viene da persone che non sanno assolutamente che cosa sia”, racconterà lei stessa, in un’intervista del 1997. Nella biografia in suo onore sul sito AldaMerini.it le figlie Emanuela, Flavia, Barbara e Simona, scrivono: “Ed eccoci qua a raccontarvi la storia di nostra madre, una madre privata delle figlie perché ritenuta psicolabile”. Una donna che soffriva anche tra le mura di casa sua, perché veniva picchiata dal marito quando lui era ubriaco, anche lui vittima dei propri demoni pur adorando la moglie, “ma lei lo amava e si crogiolava nell’illusione che lui cambiasse”.
Complesso, inevitabilmente anche il rapporto con la famiglia. Delle figlie diceva: “Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie. Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. Si chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono”.
Oggi, nella giornata della poesia, vale la pena ricordare Alda Merini (scomparsa il 1°novembre 2009) non come prodotto della sua “pazzia”, ma come voce che ha testimoniato anche la malattia mentale e il dolore degli “esclusi” dei manicomi. Lo ha fatto con la sua poesia. Con la sua vita. Un dolore che la Merini ha trasformato in speranza e amore: “Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita”.