Deserto Bianco, cartoline d'umanità intorno alla guerra tra israeliani e palestinesi | Culture
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Deserto Bianco, cartoline d'umanità intorno alla guerra tra israeliani e palestinesi

Gian Stefano Spoto, giornalista di lungo corso e dal 2014 corrispondente Rai per il Medio Oriente ha raccontato il conflitto da una particolare angolatura.

Deserto Bianco, cartoline d'umanità intorno alla guerra tra israeliani e palestinesi
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12 Marzo 2021 - 19.34


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di Rock Reynolds

Capita di sentire qualcuno commentare che è “una guerra brutta” a proposito di questo o quel conflitto. Come se potesse mai esistere una bella guerra.
Il conflitto israelo-palestinese non ha certamente nulla di edificante, eppure è spesso additato dai filoisraeliani come il massimo dell’efficienza militare e dai filopalestinesi come l’incarnazione stessa del coraggio degli ultimi. A confronto due mondi, addirittura due diverse filosofie di vita in quella che, a buon diritto, è la culla della cultura occidentale moderna. Gli spietati, ricchi e intolleranti israeliani, per alcuni, e i retrogradi, litigiosi pezzenti palestinesi per gli altri. Ed è proprio di questa contrapposizione ideologica annebbiante che si nutre da sempre una propaganda più o meno strisciante, alimentata a destra dall’appoggio quasi paradossale (per motivi storici) allo strapotere israeliano e a sinistra da un sostegno sterile, talvolta acritico alla questione palestinese.
Occorre fare chiarezza, ma l’empatia non può venire meno.
Ed è proprio la vicinanza alle persone comuni l’elemento primario che permea Deserto Bianco (Graphofeel Edizioni, pagg 169, euro 18) di Gian Stefano Spoto, giornalista di lungo corso e dal 2014 – allo scoppio della guerra di Gaza – corrispondente RAI per il Medio Oriente. Deserto Bianco è una raccolta di cartoline di umanità da un territorio martoriato in cui gli interessi di parte non riescono tuttora a riportare l’essere umano al centro della piazza e in cui la convivenza forzata a stretto contatto non basta a restituire dignità a un popolo e sicurezza all’altro. Come dice Spoto, “La tela è piena di vicende umane in cui c’è più solidarietà che contrapposizione”. Basta poco per coglierlo. Per esempio una rara nevicata che restituisce il sorriso ai bambini. Eppure, in tempo di “guerra nessuno può essere solo militare o solo ragazzo, ma i due ruoli si alternano in continuazione”.
Sono le microstorie a fare di questo libro una splendida lettura, a commuovere ancor più di una cronaca che snoccioli le cifre degli orrori quotidiani. Storie come quella di una madre israeliana che sa che suo figlio, militare, potrebbe essere a poche centinaia di metri da dove vive lei, praticamente sul fronte, e che lascia sempre la porta aperta nel terrore che qualcuno di notte bussi, il segnale del lutto più terribile che possa abbattersi sulla sua casa. O quella della famiglia di un attentatore palestinese ucciso in azione di cui il governo israeliano decide di abbattere la casa con i bulldozer, una sorta di terribile vendetta divina che, di fatto, sortisce pochissimi effetti virtuosi, oltre a esacerbare pesantemente animi già gonfi di rabbia e dolore.
Deserto Bianco è una lettura destinata a scalfire i cuori più duri. Gian Stefano Spoto ha idee piuttosto chiare e non ha indugiato minimamente quando gli abbiamo chiesto di corroborare quanto scritto nel suo bel libro rispondendo ad alcune domande.
Il tempo in Israele/Palestina ha cambiato la sua idea sulla questione palestinese? E l’ha cambiata come persona?
Hanno cambiato la mia idea, nel senso che non ero mai andato in quella regione nemmeno come turista. Al direttore generale della RAI avevo chiesto con insistenza Istanbul, ma era appena scoppiata la guerra di Gaza e mi convinse a precipitarmi in Medio Oriente. Per l’esperienza maturata, penso che parlare di ragioni e torti da entrambe le parti sia semplicistico, perché la situazione è ingarbugliata al punto che ognuno dei contendenti può accusare l’altro di tutte le nefandezze, dimostrando di avere validi motivi per aver perpetrato le proprie. È comunque difficile passare da un’Europa che si lamenta del proprio benessere a una situazione in cui si assiste a scenari inimmaginabili.
Il giornalista, quasi per definizione, è il cronista della realtà. Si può essere cronisti e di parte?
Si può essere cronisti di parte solo se si milita, più che lavorare, in un mezzo di informazione palesemente schierato. Dunque, nessuna disonestà nell’esprimere la posizione della propria testata. Ma giornali e televisioni per tradizione indipendenti che diventano una sorta di organi occulti di partito, di movimento o di coalizione giustificano la disaffezione del pubblico per l’informazione tradizionale, che sta scomparendo.
Un elemento balza inequivocabilmente all’attenzione del mondo quando si parla del conflitto tra israeliani e palestinesi: il numero delle vittime. Immagino che i palestinesi lo utilizzino come indicazione della iniquità del conflitto e che gli israeliani minimizzino o si giustifichino dicendo che i numeri non sono tutto…
Io ho un’app sullo smart phone che mi segnala, ancora oggi, quando un missile cade in territorio israeliano. Normalmente sparato da Gaza. Nel mio libro c’è un capitolo, “Missili inopportuni”, in cui racconto come ci siano razzi che scatenano controffensive israeliane violentissime e altri che la diplomazia consiglia di ignorare, magari per proseguire con le trattative. Va detto che la maggior parte dei missili lanciati da Gaza sono artigianali e che molto raramente colpiscono obbiettivi: spesso cadono nel nulla o, in alcuni casi, vengono intercettati dall’Iron Dome. E gli israeliani hanno loro teorie sul fatto che da Gaza si lancino delle offensive quando il numero di razzi preparati è sufficiente e quando i tunnel scavati sotto terra per blitz nel Negev sono stati completati. Certamente, la perdita di vite umane nella piccola striscia densamente popolata è tale da costituire anche nei bombardamenti selettivi un inevitabile effetto collaterale. Israele, poi, provvede a curare, prevalentemente a Gerusalemme, i bambini colpiti durante le azioni militari.
L’ultimo anno ha visto un inedito riavvicinamento di Israele da una parte e alcuni paesi arabi dall’altra. Cosa potrebbe portare (o magari ha già portato) il riallacciamento delle relazioni diplomatiche?
La presidenza Trump ha tessuto trame diplomatiche improntate principalmente su scambi commerciali di interesse tale da far avvicinare a Israele alcuni fra i paesi più ricchi della Lega Araba, a iniziare da Emirati e Bahrein. Con il silenzio benevolo dell’Arabia Saudita, economicamente interessata, ma pur sempre paese simbolo dell’Islam sunnita. In un secondo tempo si sono fatti avanti anche paesi poveri come il Sudan o benestanti come il Marocco. Va detto che Israele e il mondo sunnita hanno l’Iran sciita come nemico comune.
Come si fa a mantenere empatia con le persone in uno scenario in cui sembra che l’umanità passi in secondo ordine?
I governi, gli scenari internazionali, la politica, la geopolitica. E poi la gente, quella che si arrabatta ogni giorno. L’empatia nasce con la gente comune, con storie straordinarie che da noi difficilmente potrebbero esistere. E in paesi in cui gli schemi sembrano calcificati da sempre, ci si imbatte in vicende inimmaginabili. Quelle che hanno ispirato Deserto Bianco. E milioni di altre.
La guerra e le limitazioni della libertà individuale dei palestinesi imposta da Israele per la propria sicurezza devono aver aperto ferite difficilmente cicatrizzabili. Quali ferite aperte restano soprattutto dopo l’operazione “Piombo Fuso” a Gaza?
“Piombo Fuso” ma anche “Pioggia d’Estate”, “Nuvole d’Autunno”, fino a “Margine di Protezione” del 2014, titolo, quest’ultimo, meno poetico, ma operazione simile alle altre. Non hanno aperto alcuna ferita, perché l’enorme ferita di Gaza non si è mai richiusa. E i recenti accordi di Israele con alcuni paesi arabi sono stati “salutati” con un drammatico lancio di inutili razzi verso Israele, ma, nella mente dei palestinesi, verso quei musulmani che li hanno esclusi e abbandonati. Ora , salvo correzioni (non probabili) di rotta, la strada per loro sarà ancora più in salita.
Quando un giornalista si reca in un paese lacerato dalla guerra, lo fa inevitabilmente con un’idea preconcetta?
Qualcuno no, ma tanti sì. Addirittura, coppie di corrispondenti: uno filo-israeliano, l’altro filo-palestinese. Non commento nemmeno la scorrettezza di questo tifo, soprattutto se rapportato al servizio pubblico radio-televisivo.
C’è una differenza tra il palestinese e l’israeliano? A volte, in Occidente si fa addirittura fatica a distinguerli sul piano fisico, a meno che l’israeliano in questione non venga dall’Europa orientale e non abbia tratti nordici…
Credo di avere imparato a distinguerli in pochissimi giorni, senza sbagliarmi mai. Ma, oltre che fra palestinesi e israeliani, c’è da distinguere fra cento sfumature di ebrei, dagli ortodossi che Deserto Bianco racconta diffusamente ai semi-laici, pronti al dialogo, ma in netta minoranza. La mia fantastica redazione RAI di Gerusalemme è un esempio di ottima convivenza fra produttori, operatori, tecnici e montatori di etnie diverse.
Che idea si è fatta della percezione della paura in quelle terre, dall’una e dall’altra parte?
Non è per far pubblicità al mio libro, ma questo è un argomento di cui parlo diffusamente: dalla mamma del graduato israeliano che vive non lontana dal confine di Gaza, vede dalla finestra soldati e segue i telegiornali giorno e notte, agli psicologi che lavorano giorno e notte di qua e di là dal confine, dalle famiglie che vivono per settimane in minuscoli rifugi fino a quello che definisco il popolo dei quindici secondi, quelli che intercorrono fra l’allarme e l’arrivo del missile. Questa è la paura.

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