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“Sedici parole”, il romanzo d'esordio di Nava Ebrahimi

L' autrice ci porta dentro le città di un paese soggetto a sanzioni, stordito dalla tv dove anche il lutto e la morte sembrano finti. Una storia da scoprire a partire dal funerale della nonna

“Sedici parole”, il romanzo d'esordio di Nava Ebrahimi
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Sonia Boldrini Modifica articolo

15 Febbraio 2021 - 09.56


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Parlare una lingua diversa da quella d’origine, essere estranei ovunque, nella casa vecchia e nella nuova, deve essere così e molti si ritroveranno in queste pagine, in questo lessico famigliare da esuli.

Le parole di “Sedici parole” (titolo originale“Sechzehn Wörter”, edizione italiana Keller, 2020, pagg. 330), romanzo d’esordio della scrittrice iraniana residente in Austria Nava Ebrahimi sono più di 16. E ci portano in giro per le città di un paese soggetto a sanzioni, in cui il capo religioso fa capolino continuamente qua e là, in tv o lungo la strada, con ritratti alti diversi metri. Un paese stordito dalla tv e affascinato dal trucco permanente, che fa sì che si possa piangere a volontà ai funerali, come si deve, ma senza lasciare tracce, come se anche il lutto e persino la morte fossero finti. Che invidia la azadi (libertà) occidentale ma deve ancora fare i conti con le spose bambine e i khastegar (pretendenti) che si accordano con i genitori.

C’è una storia da scoprire, a partire dal funerale di Maman bozorg (la nonna), la figura più imponente del libro, che riporta Mona in Iran. E ci sono le vicende del padre maoista, brillante medico iraniano sconfitto dalla rivoluzione del 1979, che nella sua seconda vita da esiliato in Germania ogni giorno, dalle nove alle diciannove, vende frutta e verdura, riso basmati, frutta a guscio, conserve e sottaceti, tè Assam e acqua di rose, offrendo spesso in omaggio un detto di Confucio. “La rivoluzione ha portato ciascuno lontano da qualche cosa, e tutti quanti dalla fede; la fede in che cosa, non importa, in qualunque cosa”.

E, come in ogni romanzo che si rispetti, c’è l’amore, iraniano, tedesco, difficile, impossibile, bello. Mai al sicuro, in Iran, dalla Polizia morale, che controlla tutto, soprattutto le donne, soprattutto in compagnia di uomini che non sono i mariti. Ossessionata dalla morale e, come la nonna, dalla kos (sesso femminile), pronunciata più volte al giorno ma mai davanti a un uomo. Dappertutto “qualcuno che ha sentito qualcosa, qualcuno ha raccontato qualcosa, qualcuno ha visto qualcosa che non deve assolutamente essere riferito”. Perché “Avere paura è proprio quello che la paura vuole, come diceva, sotto un’altra dittatura, il poeta portoghese Alexandre O’Neill.

Il filo si dipana via via, tra le macerie della millenaria città di argilla, Bam, in ricostruzione dopo il terremoto del 1993, le vie di Teheran, città di origine della scrittrice, e il villaggio del padre, il paese degli anar (melograni). “Alla fine mio padre è morto di cancro allo stomaco. Sarebbe meglio restare in patria e mangiare quello che mangiavano gli antenati. Si paga un prezzo alto per emigrare. Più alto di quello dei documenti falsi e dei passeur”. Ancora una cucina diversa, una lingua diversa.

“L’Iran e io, questa stressante relazione on-off”. Nava Ebrahimi torna spesso sul tema, nel libro, la sua relazione con l’Iran è questa. È come questa: “Prima di entrare in una moschea, ogni volta provo un senso di avversione. Quando sono dentro, non vorrei andarmene più. Mi sento come deve sentirsi un bebè sopra un’immensa trapunta. Sazio di latte, coperto di borotalco, fasciato. Più di ogni altra cosa vorrei starmene giorni interi a rotolare qua e là sui tappeti persiani. Passerei le giornate a meravigliarmi della simmetria degli arabeschi che qui, in questa moschea, mi sembrano più intricati delle persone. Di notte non mi servirebbero cuscini né coperte, dormirei come un neonato si appisola sul senso di sua madre e i cui sogni di latte caldo si avverano al primo battito di ciglia”.

Ma “Sedici parole” non è solo la storia di Mona, la giovane iraniana che vive a Colonia, è la storia di Ramin, l’amante iraniano, della madre che viaggia con lei, del tassista che le accompagna, degli ingegneri francesi che riscostruiscono Bam, del cameriere nel locale di kebab, della donna a cui si strappa la borsa della spesa e del proprietario dell’auto le cui ruote ne schiacciano il contenuto. Un’anar, che macchia tutto di rosso sangue. La storia di un Iran che, verso ovest, “nei territori curdi dell’Iran, nei territori curdi dell’Iraq, attraverso la Siria” fa un tuffo nel Mediterraneo.

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