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Per Carofiglio anche un magistrato deve nutrirsi con l’arte del racconto

Lo scrittore non vede “differenza tra romanzi e saggi”. E ha descritto come un membro della giustizia deve confrontarsi con la cultura nella sua ultima opera narrativa

Per Carofiglio anche un magistrato deve nutrirsi con l’arte del racconto
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11 Dicembre 2020 - 16.08


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di Antonio Salvati

«Tra romanzi e saggi non vedo differenza», ha sostenuto recentissimamente Gianrico Carofiglio. Non c’ è una soluzione di continuità tra il Carofiglio narratore e il Carofiglio saggista. Non c’ è sostanziale differenza. «Molto banalmente, sono davvero due facce della stessa medaglia», ha sostenuto il diretto interessato. Questa distinzione, infatti, non è presente nel suo ultimo romanzo La misura del tempo (Einaudi 2019, pp. 288, 18,00 euro), ambientato a Bari, in cui narra una vicenda processuale che ha per protagonista l’avvocato Guerrieri che accetta un caso di ricorso in appello decisamente complicato riguardante un giovane spacciatore, Jacopo Cardace, che sta scontando la pena per un omicidio. La madre del ragazzo, Lorenza, è una professoressa precaria con la quale Guerrieri ha avuto una breve relazione sentimentale trenta anni prima. Nelle pagine del romanzo c’ è, di fatto, un piccolo saggio del corretto approccio tra cultura e senso giuridico nel lavoro di un magistrato.

Infatti, da ex magistrato Carofiglio nella sua narrazione non solo assegna un ampio spazio all’esposizione delle diverse fasi del procedimento penale, con i numerosi interrogatori e dibattimenti in aula, tanto da indurre a suggerire il volume a qualsiasi studente di giurisprudenza e a tutti gli operatori della giustizia. Ma in un capitolo del romanzo racconta una lezione tenuta dall’avvocato Guerrieri a dei giovani magistrati tirocinanti sulla funzione del difensore nel processo penale. In quell’occasione l’avvocato acutamente sottolinea che «il diritto, il processo, in particolare il processo penale, sono saperi procedurali, strumenti per regolare i conflitti confrontandosi con la complessità del reale. Nel reale complesso con cui dobbiamo confrontarci i punti di vista sono plurimi e le ragioni quasi sempre distribuite, anche se in misura diseguale, fra i diversi protagonisti di un rapporto o di una controversia». E soprattutto afferma che «un giurista deve – sottolineo deve – dedicare una cospicua parte del proprio tempo a cose che con il diritto, all’apparenza, non c’entrano nulla: leggere buoni romanzi, vedere buon cinema, anche buona televisione. Insomma nutrirsi di buone storie. Perché deve, si potrebbe legittimamente chiedere? Perché è l’arte del racconto a ricordarci come non esista una sola risposta di fronte ai dilemmi umani. Essi sono inevitabilmente ambigui». Mentre i «personaggi dei buoni romanzi, dei buoni film, rappresentano i diversi punti di vista sul reale».

Ma accanto alla narrazione della cronaca giudiziaria del caso penale del giovane Jacopo, abilmente alternata con il racconto del periodo giovanile di Guerrieri e soprattutto dell’estate trascorsa insieme alla madre dell’imputato, sono degne di nota le numerose considerazioni di Carofiglio – anche di carattere filosofico – sull’inesorabile scorrere del tempo, sull’incombenza della morte. Carofiglio con il protagonista del suo romanzo, accompagnato dalla nostalgia, ci riferisce che negli anni alcuni luoghi della sua città lo aiutano a ricordare «sempre più intensamente sensazioni e fantasticherie del passato remoto. Un’epoca di stupore. Ecco, certi luoghi della città mi fanno sentire nostalgia per lo stupore. Essere storditi dalla forza di qualcosa. Mi piacerebbe tanto, se capitasse di nuovo. Forse potrebbe essere proprio lo stupore – se fossimo capaci di impararlo – l’antidoto al tempo che accelera in questo modo insopportabile». Lo stupore, dunque, come antidoto al tempo che «scorre veloce quando si invecchia perché, di regola, si ripete sempre uguale. Le possibilità di scegliere si riducono, le vie sbarrate si moltiplicano, fino a quando tutto pare ridursi a un unico, piccolo sentiero. Non hai voglia di pensare a dove conduce, quel sentiero, e questo produce un’anestesia della coscienza. Aiuta ad attutire la paura della morte, ma sbiadisce i colori». Differentemente quando si è giovani, osserva Carofiglio, si nutre una diversa visione del mondo e del tempo. Infatti, «il tempo è molto più esteso per i giovani perché sperimentano in continuazione cose nuove. La loro vita è piena di prime volte, di improvvise consapevolezze». Sono considerazioni che francamente non lasciano indifferenti chi come me ha da tempo superato la soglia dei cinquant’anni e talvolta si interroga sulla memoria della propria esistenza.

Potremmo dire che il clic saltellante e rapido del mouse scandisce la misura del tempo. In pochi minuti possiamo ritrovare: amici delle superiori, anno 1980-81, una canzone di David Bowie, un articolo del 1988 uscito su L’Espresso. La ricerca del tempo perduto passa dal web. Gli archivi e tutte le cose passate che non immaginavamo neanche di poter ritrovare un giorno ci si fanno incontro nell’istante stesso in cui le cerchiamo. La memoria sembra diventata inesauribile, ma la profondità del tempo – quella che ci veniva trasmessa anche dall’odore e dall’ingiallimento della carta, dal fruscio delle pagine, dalla sottolineatura di un paragrafo – oggi è come scomparsa. In passato ci sentivamo in un presente infinito. Lo volevamo «salvare» di continuo, in una frenesia di foto e filmati. Centinaia d’immagini disperse ai quattro angoli del nostro mondo di amicizie, oggi trasferite sui computer e archiviate in cartelle che poi non apriamo quasi mai. L’importante era aver scattato la foto, aver captato e raddoppiato l’esistenza, averla registrata in diretta. Insomma, un tempo più esteso.

Ad una certa età ti accorgi che il passato assume un’altra forma, fluida, a basso tasso di ricordi reali. Le immagini degli anni trascorsi sono troppe per riuscire a soffermarsi su ciascuna di loro. Si racconta per non dimenticare, anche se spesso si dimentica qualcosa ogni volta che si racconta. Per debolezza oppure per deliberata omissione, per proteggere un segreto o più semplicemente per tutelare sé stessi. Senza il racconto non c’è memoria, anche quando il racconto è reticente. Potremmo dire che siamo frutto del nostro racconto e solo nel nostro racconto possiamo salvare dal passato qualcosa che pensiamo utile per l’avvenire. Se anche la forma che diamo alla memoria non fosse perfetta, non per questo dobbiamo rinunciare all’avvenire, nostro e degli altri. Anton Pavlovič Čechov diceva che «è curioso che noi oggi non possiamo assolutamente sapere che cosa domani sarà ritenuto sublime, importante e che cosa meschino, ridicolo. […] E la nostra vita, che oggi viviamo con tanta naturalezza, apparirà col tempo strana e scomoda, priva di intelligenza, non sufficientemente pura, forse addirittura immorale».

Grazie a Carofiglio che ci ha aiutato a ricordare l’importanza della misura del tempo, nostro e degli altri. Come direbbe il salmista «…insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo al cuore della sapienza».

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