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Cosa nasconde la clinica dell’addio alla vita di Alicia Giménez Bartlett

In “Exit” la narratrice spagnola immagina un luogo superesclusivo per chi vuole andarsene: una farsa nera che ricorda Buñuel

Cosa nasconde la clinica dell’addio alla vita di Alicia Giménez Bartlett
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3 Gennaio 2020 - 10.58


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di Enzo Verrengia

Il dramma cumulativo è uno degli espedienti più riusciti del cinema e del teatro. E fra queste due forme espressive oscilla Exit, di Alicia Giménez Bartlett, che qui si trova non più alle prese con le indagini di Petra Delicado, bensì dinanzi alla sfida di costruire un intreccio di esistenze che hanno in comune il freudiano istinto di morte.

Il titolo è quella di una specie di clinica superesclusiva che ad ogni cambio di stagione ospita gruppi di persone decise a suicidarsi. Il contratto prevede che non si tratti di individui affetti da depressione o altre turbe psichiche. Gli utenti di “Exit” devono risultare nel pieno possesso delle facoltà mentali. La loro scelta autodistruttiva dipende unicamente dalla consapevole rinuncia alla vita.
Ed ecco pertanto entrare in scena, come a teatro, una dopo l’altra, le dramatis personae. Vi fanno spicco Pamela e Clarissa, giovani, bellissime e desiderabili, il cui intento stride in apparenza con la loro esuberanza vitale. Insieme a loro, la ricca vedova Tevener (che se dal romanzo si ricavasse un film sarebbe una parte perfetta per la prosperosa Andréa Ferréol), il magnate della finanza Finn e lo scrittore maudit Léonard. A loro si aggiungerà un pensionato delle ferrovie e un clochard che ha ottenuto il beneficio di usufruire gratis dei benefici di “Exit”.

Gli aspiranti suicidi sono accuditi dai dottori Berset ed Eugenius e dall’infermiera psicologa Matea. Da luculliani pranzi a sontuose cene, l’accolita vive un’estate luminosa e calda che lascia presagire soltanto serenità. Invece il sentore di morte incombente scorre come un fiume sotterraneo ai piani sepolcrali della prosa ironica e accattivante della Giménez Bartlett. Vi fosse Petra Delicado, quest’ultima avrebbe già decodificato il meccanismo criminale di “Exit”, un’impresa che lucra sulla caduta a picco della civiltà occidentale. Nei dialoghi fra i protagonisti, infatti, si avverte, anzi si legge espressamente, l’orrore di un mondo esterno dove tutto va sempre peggio e non s’intravedono prospettive di futuro.
A ciò si aggiungono le tragedie individuali dei “pazienti”. L’incapacità della vedova di accettare la sua perdita, il ripudio dell’arte di Léonard, l’amore impossibile di Finn per Pamela, che pur concedendoglisi non può abdicare dalla sua natura omosessuale, la dedizione a quest’ultima da parte di Clarissa.

I dottori Berset ed Eugenius appaiono incrollabili detentori di un ordine formale che conferisce l’aria di una commedia brillante a quello che di fatto è una sorta di discarica autorizzata di umanità deviata. Più di loro due, l’imperturbabile infermiera Matea è del tutto immune alla lenta spirale delle circostanze. Tanto che a cose ultimate, quando con l’equivalente scritto di una lunga inquadratura vengono passati in rassegna i luoghi del libro, la presenza di questa donna, fredda e distante per l’intero arco nel racconto, aleggia fra le stanze promettendo di occuparsi con la stessa efficienza dei prossimi candidati alla morte assistita.
In Exit, Alicia Giménez Bartlett riesce ad evocare lo spirito di un capolavoro come L’angelo sterminatore, di Luis Buñuel, dove la fine è annunciata nell’incipit, ma anche a rendere scoppiettante lo snodarsi di una farsa nera, popolata di personaggi che sono maschere annidate nel profondo di ogni lettore.

Alicia Giménez Bartlett, Exit (Sellerio, tr. di Maria Nicola, pp. 352, Euro 14,00)

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