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Immigrati, per essere creduti disperatevi, non sorridete

Pubblichiamo un brano da “Consigli per essere un bravo immigrato” di Elvira Mujčić. Su Ismail venuto dal Gambia messo in trappola dai pregiudizi

Immigrati, per essere creduti disperatevi, non sorridete
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2 Maggio 2019 - 12.40


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Per «essere un bravo immigrato» occorrono requisiti che non servono, per essere un semplice cittadino. Per esempio bisogna solo disperarsi, ridere o sorridere è inammissibile. “Consigli per essere un bravo immigrato” è il titolo, ironico, del libro  di Elvira Mujčić (Elliot Editore, Collana Scatti, pp. 96, € 12,50) di cui pubblichiamo, sotto, il settimo capitolo.

La scrittrice italo-bosniaca, nata nel 1980 in Serbia, vive a Roma, fa l’interprete e scrive libri. In queste pagine la narratrice si mette anche nei panni di Ismail, un ragazzo venuto dal Gambia in Italia che si trova in una situazione paradossale comune a tanti come lui: è fuggito dalla miseria, dalla fame, dalla guerra, ha compiuto un viaggio da clandestino rischiando la pelle, eppure una commissione ha ritenuto la sua storia non credibile per cui si ritrova impigliato nelle maglie di una burocrazia spietata.

Ismail si arrovella sul perché non lo hanno creduto. «Il tuo tono è misurato, quasi distaccato, e il tuo stile è secco. Non suscitano compassione, si ha quasi l’impressione che tu non abbia sofferto, è come se non volessi essere compatito», gli viene detto. Perché solo torture subite e morte possono dare il passaggio a una accoglienza. La narratrice lo sa. Riepiloga la sua esperienza: non è stata stuprata nella guerra dell’ex Jugoslavia per cui non trovava compassione.

Non è un limite della burocrazia: è una cultura impostata così. Ricordate l’indignazione, vergognosa, di una donna bianca italiana perché una donna africana salvata sul barcone aveva lo smalto sulle unghie? Peraltro quello smalto le fu messo da una soccorritrice per dare conforto psicologico, ciononostante l’indignata anti-immigrati di turno non avrà cambiato certo opinione di fronte alla smentita dei fatti.

Come hai raccontato la tua storia, Ismail?

«L’hai raccontata così come l’hai raccontata a me?».
«In che senso?».
«Voglio dire con questo tono e stile».
«Sì, credo di sì».
«Allora è ovvio che non ti hanno creduto».
«Perché?».
«Il tuo tono è misurato, quasi distaccato, e il tuo stile è secco. Non suscitano compassione, si ha quasi l’impressione che tu non abbia sofferto, è come se non volessi essere compatito».
Lui mi guardò con perplessità.
«Ma non basta quello che ho raccontato? Non basta che sono stato in Libia? Tutti sanno cosa succede in quel Paese. Non basta che ho attraversato il mare?» domandò.
«Tu chiedi a me le indicazioni per essere un immigrato come si deve, ma te ne hanno date già una miriade. Rileggi solo il diniego della Commissione».
«In che senso?».
La pesantezza dei toni e la regola del più è meglio è sono le due indicazioni elementari nel nostro percorso. Appena qualche giorno prima un uomo armato di pistola aveva minacciato di morte dei ragazzi gambiani seduti in spiaggia. Il motivo? Ridevano. Sì, proprio così: ridevano e basta, non ridevano di lui, ma erano divertiti per qualcosa che si erano raccontati e l’uomo l’aveva vissuto come un affronto a lui e aveva gridato loro: «Che cazzo ridete? Venite qua a ridere?! Tornatevene in Africa!».
Non solo venite qua, in più ridete, se siete davvero poveracci come volete farci credere non ridereste, piangereste, intendeva dire l’uomo.

Quello che ci si aspetta di ascoltare da un rifugiato è una storia devastante, più morti e torture ci sono, meglio è. Non può essere una storia meno che terribile, perché se lo fosse, chi la racconta non meriterebbe di essere accolto e protetto. Allo stesso tempo per una storia di quel genere non si può utilizzare un tono leggero, ironico men che meno, poiché la leggerezza viene subito interpretata come superficialità e l’ironia come arroganza e ingratitudine. Nessuno prenderà sul serio l’ipotesi che l’ironia nasca dalla disperazione oppure, come suggeriva Calvino, «quella speciale modulazione lirica ed esistenziale che permette di contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia. […] Come la malinconia è la tristezza diventata leggera, così lo humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea».
Alla domanda di Ismail risposi con un ricordo che non finisce di stupirmi anche a distanza di diversi anni. Avevo scritto un libro, all’interno del quale c’era un racconto sullo stupro etnico durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina e una sorta di festival mi aveva invitato a parlarne. Ci andai, cercai di portare l’attenzione sul protagonista che si muoveva all’interno della sua storia e di quella del suo Paese con malinconia, tenerezza, pensiero critico, un certo sarcasmo e soprattutto con il caratteristico tratto canzonatorio dei bosniaci. Provai a descrivere il mio personaggio come un essere umano che aveva vissuto la guerra ma era anche stato tradito dalla fidanzata e faceva un lavoro che detestava. Insomma, uno che aveva vissuto altre esperienze nella vita a parte quella della guerra.

Non riscossi grande successo, l’interesse era concentrato sullo stupro etnico e quindi mi arresi, raccontai come mi ero documentata, come ero entrata in contatto con vissuti così difficili e a quel punto accadde qualcosa di allucinante. Una signora della seconda fila, capelli ricci e occhi delusi, alzò un ditino e senza aspettare esclamò: «Ma quindi lei non è stata nemmeno stuprata?!».
Per qualche ragione assurda, mi colpì l’avverbio nemmeno e sovrappensiero lo ripetei ad alta voce: «Nemmeno…». «Sì, insomma, avendo letto che veniva dalla Bosnia mi aspettavo che quella che ha scritto fosse la sua storia o che quanto meno lei avesse vissuto qualcosa… No, non fraintenda, non che voglia dire che non ha vissuto, certo, sì, sicuramente una guerra porta conseguenze psicologiche, però, ecco, solo quelle per lei? Non è stata ferita o qualcosa del genere?».
La donna seduta accanto annuiva con convinzione e sosteneva che anche lei si era aspettata qualcosa di più da questo incontro, mentre io avevo un tono lucido e addirittura ero vitale; al contrario, chi ha vissuto esperienze di questa portata non può certo essere così, lei si ricordava bene di sua madre che era stata una ragazzina durante la Seconda Guerra Mondiale e ogni volta che qualcuno accennava alla guerra la sua cara e povera mamma si metteva a piangere.

Non ci provai nemmeno a specificare che la guerra l’avevo vissuta circa ventitré anni prima e quindi se fossi rimasta cristallizzata a quel momento avrei reso l’esperienza della guerra il destino della mia vita. Trovai ancora più inutile soffermarmi a riflettere con questa signora su un tema a me molto caro, ossia la vitalità della sopravvivenza e di quanta passione e attaccamento alla vita richieda una guerra, una migrazione o un pericolo di morte in generale. La lasciai nella sua delusione, orfana della ragione per la quale era venuta a quell’incontro, ovvero quella di offrirmi la sua infinita compassione.
Ismail ora rideva e annuiva, era una risata di sollievo, perché c’è da diventare matti mentre si cerca di ficcarsi nel modellino che hanno costruito per tutti quelli come te. C’è da uscire pazzi nel cercare di soffrire nel modo e per la durata che ti indicano gli altri, e soprattutto per ciò che tra gli eventi della tua vita viene ritenuto degno di sofferenza.

«E a rileggere la tua storia da questa prospettiva, non rispetti nessuno dei criteri di un bravo immigrato» gli dissi.
«È vero!».
«Come hai potuto pensare che ti avrebbero dato la protezione?».
«Però si può soffrire solo in un certo modo. Se ti metti a gridare e minacciare un operatore ti portano via, ti danno le pastiglie, così non parli e non urli più. Quella sofferenza non la vogliono ascoltare, non va bene, non è civile. Se racconti quello che hai vissuto di terribile nel tuo Paese sottosviluppato meriti compassione, ma se ti lamenti che qui vivi e sei trattato come un animale non va bene, non sei giusto, non sei grato».
Ismail smise di parlare, guardava diritto davanti a sé e rimuginava su pensieri che non voleva condividere ma che parevano far parte di un suo discorso abituale cominciato molto tempo prima.
Un’altra indicazione da tenere a mente è che una volta che si è scivolati giù per la scala della miseria e della sciagura è auspicabile non risalirla mai più. Oppure risalirla un poco, il giusto affinché tu sia sempre riconoscibile e non pretenda mai di arrivare a un livello pari agli abitanti del Paese che ti ospita.
«Hai visto i ragazzi che puliscono le strade in giro? Quelli che hanno un cartello dove sta scritto che vogliono integrarsi in questo Paese e puliscono le strade gratis, non chiedono di essere pagati, va bene qualche spiccio. Siamo bravi immigrati se lavoriamo gratis e siamo cattivi ladri che rubano il lavoro se vogliamo essere pagati».
Mi ricordai di un cartello dove c’era scritto: «Voglio integrarmi onestamente, quindi pulirò le strade della vostra città».

Camminavo con una conoscente e passammo vicino a quel cartello che a lei richiamò un’altra vicenda. Era in spiaggia con figli e marito quando era passato un ragazzo che vendeva cianfrusaglie da mare; a lei non serviva niente, ma sentendosi in colpa di stare al mare a godersela gli aveva dato una banconota da cinque euro che lui aveva rifiutato spiegando che stava lavorando, stava vendendo e non voleva l’elemosina. Lei e suo marito si erano sentiti infastiditi da tanto orgoglio: insomma, era o no povero e che senso aveva incaponirsi sulla dignità?
«Il certificato medico è tutto» disse Ismail sorridendo. «Se è un certificato di ferite fisiche allora vai alla Commissione canticchiando. Spesso le ferite però si rimarginano, il tempo passa, e se non c’è più traccia di ferite sul corpo è come se non fosse successo niente».
«E tu avevi solo il certificato psicologico di un disturbo posttraumatico » dissi. Lui annuì pensieroso.

A dire il vero il suo certificato psicologico era una delle ragioni per la quale gli avevano rifiutato la protezione. Com’era possibile che il disturbo fosse insorto addirittura mesi dopo il suo arrivo?
Che psiche africana, che inconscio lento! O, com’è più probabile, non era insorto alcun disturbo perché non c’era nessun trauma e questi si erano inventati un certificato per fargli avere qualche possibilità in più di ottenere i documenti. Non erano stati furbi, però, e avevano scritto un’altra relazione dove dicevano che era un impavido ragazzo, brillante e desideroso di integrarsi nella società. Come lo si spiega? La psicologa sostiene che ha un disturbo con paranoie e comportamenti asociali e al Centro invece lo vedono come un ragazzo modello. Non è possibile, avranno pensato quelli della Commissione, essere sia l’una che l’altra cosa, uno o è malato o è sano, non ci sono vie di mezzo. Uno mostra subito segni di disturbo psicologico, c’è un tempo stabilito per farlo, non è che si può soffrire per qualcosa all’improvviso, dopo mesi o anni. Siamo o non siamo dei robot la cui memoria affettiva si resetta con una scadenza ben precisa?
«Sai, mentre sei in movimento per cercare soldi, passeur, passaggi, informazioni, barconi, contatti, non so, è come se non ci fosse il tempo di pensare. Magari vedi cose terribili, io ho visto… Non puoi stare lì a pensare o a ricordare, vai avanti, devi andare avanti, appena ti fermi ti cade una montagna addosso e sei finito… Ma quando arrivi e senti che puoi riposare e puoi dormire, inizi a non dormire più, ti vengono i dolori ovunque, i dolori che non avevi mentre ti menavano; d’improvviso, tanti mesi dopo li senti. A me è successo così, mesi dopo che sono arrivato, che stavo sistemando le cose, stavo imparando l’italiano, avevo trovato un amico, Maurizio, ormai c’era solo da aspettare i documenti e mi son detto: riposa un po’, niente da fare… stavo impazzendo, la testa stava per esplodere…».

Il buio stava salendo, il giorno seguente era il 21 di agosto e non ci saremmo visti poiché cadeva una festività musulmana, la festa del sacrificio. Con questa solennità si ricordava la prova superata da Ibrahim quando Allah gli chiese di sacrificare suo figlio Ismail, per poi risparmiarlo e accontentarsi della fede di Ibrahim per la quale gli donò un agnello da sacrificare al posto del figlio. Ogni mondo vuole la sua versione: quello che per i musulmani era il sacrificio di Ismail, nella tradizione cristiana era il sacrificio di Isacco. Cambiavano gli orpelli, rimaneva invariato il fulcro della narrazione.
Si trattava proprio della festa di Ismail, lui si mostrava serio al riguardo, sulla religione non si scherza, mi comunicava la sua espressione. Gli raccontai che mio nonno ad ogni festa del sacrificio sgozzava due agnelli e noi bambini andavamo in giro per la città con dei cesti a distribuire pacchetti di carne del sacrificio ai più poveri. Lui approvò energicamente con la testa e mi osservò con una certa sorpresa.
«Non pensavo che eri musulmana» disse con un tono che svelava l’inattesa scoperta che anche la mia vita era caotica, costellata di deviazioni e interruzioni.
Continuò ad annuire con la testa, gli occhi persi da qualche parte dietro di me. La faceva di continuo questa cosa di guardare altrove e sfuggire.
Ci salutammo, ci saremmo visti la settimana successiva.

Estratto da Consigli per essere un bravo immigrato di Elvira Mujčić, Elliot Edizioni
© 2019 Lit Edizioni Srl. Per gentile concessione

 

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