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I paesaggi di Fred Vargas, degna erede di Simenon

Da un viaggio in Islanda a dei delitti commessi con un ragno, nel “Morso della reclusa” la giallista si conferma in grado di scavare nell'anima

I paesaggi di Fred Vargas, degna erede di Simenon
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12 Maggio 2018 - 17.10


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Enzo Verrengia

Adorabile Fred. Valeva per il Bongusto dei tempi d’oro e oggi per la Vargas, creatrice del più legittimo erede di Maigret, il commissario Adamsberg dell’Anticrimine di Parigi. Come il segugio di Simenon, quello di Fred Vargas misura i passi nella «città di pietra», senza cedere alla frenesia epocale, che il ben noto slogan pubblicitario definiva «il logorio della vita moderna». Eppure lui vi è calato corpo e anima, perché del tuo tempo deve cogliere obbligatoriamente il peggio: delitti di ogni genere, modalità ed efferatezza.
In Il morso della reclusa, tanto per iniziare, arresta l’assassino di una bella trentasettenne investita e schiacciata da un Suv. È un preludio investigativo, come la solita sequenza d’azione su cui si aprono i film di 007. Il resto del romanzo, invece, viaggia su altri binari, quelli tracciati da un componente della squadra di Adamsberg, Voisenet. Ittiologo mancato e costretto dal padre ad arruolarsi nella polizia, quest’ultimo dapprima appesta di miasmi un ufficio dell’Anticrimine nascondendo in una busta della spesa una murena, poi rivela ben altra passione, quella per i ragni.
Adamsberg la scopre accendendo il computer di Voisenet all’ultima finestra di consultazione, dominata da una strana specie aracnoide, la reclusa. Il nome le deriva dalla sua abitudine di annidarsi nei pertugi, al riparo dalla realtà. Salvo poi secernere un veleno che provoca setticemia e morte specialmente negli anziani. Ve ne sono tre, ultraottuagenari, periti a Nîmes, stando alle ricerche di Voisenet. Si tratta di casi apparentemente privi di dolo. Però due delle vittime si conoscevano fra loro.

All’Anticrimine sono tutti presi dalle incombenze burocratiche pertinenti la confessione dell’omicida stradale che ruba la scena nelle prime pagine del libro. Le vittime del morso della reclusa non hanno alcuna caratteristica che riguardi crimini sui quali dovrebbe calare la rete della polizia. Ma il tic di Voisenet ha contagiato Adamsberg, che per quanto refrattario al logorio della vita moderna non ignora le potenzialità del web. Ed esplorando i social con il suo sottoposto non tarda a entrare nel dibattito acceso che s’incentra sulla particolare varietà di ragno cui si devono le lesioni mortali degli ottuagenari di Nîmes.
Ancora una volta, Fred Vargas utilizza le sue risorse stilistiche per costruire una vicenda che alle regole del poliziesco aggiunge lo spessore antropologico. Adamsberg attraversa scenari dell’anima, più che della geografia. Fin dallo scorcio di apertura, quando lo si trova fra i ghiacci dell’Islanda a godersi una vacanza artica di rara spettacolarità. Il commissario ha perfino imparato l’islandese essenziale per comunicare, tutto basato sulle necessità elementari dell’esistenza: mangiare, bere, viaggiare. Gli servono esattamente allo stesso scopo perseguito da Maigret in tutta la sua carriera da investigatore, quello di entrare in empatia con il prossimo, sia colpevole che innocente.
Sarà così per tutto l’arco de Il morso della reclusa. In una magistrale carrellata d’incontri, svolte fuorvianti, false piste e rivelazioni, Fred Vargas arricchisce il curriculum di Adamsberg con un’indagine di grande rilievo negli annali del polar, sulla scia tipicamente francese della felice convivenza di “genere” e mainstream.

Fred Vargas, Il morso della reclusa (Einaudi, tr. di M. Botto, pp. 436, Euro 20)

 

 

 

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