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Scrittori e spie: la sottile arte del doppio gioco

Julia Kristeva fu una spia bulgara? L’accusa, respinta, ci rimanda a Le Carrè, ai sospetti su Marquez. Gli anglosassoni sono imbattibili: perfino Shakespeare ...

Scrittori e spie: la sottile arte del doppio gioco
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3 Aprile 2018 - 11.45


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Enzo Verrengia

Julia Kristeva fu una spia dei servizi segreti bulgari all’inizio degli anni ’70? È l’accusa mossa dai governanti attuali di Sofia alla loro illustre concittadina naturalizzata francese. L’intellettuale che legò la semiotica alla psicanalisi e fu tra le protagoniste del ’68 avrebbe ricoperto un ruolo di punta nella foresta di specchi, come definì l’intelligence James Jesus Angleton, il capo del controspionaggio americano negli anni della guerra fredda. La Kristeva definisce l’affermazione dei bulgari una «sfacciata bugia». Sta di fatto che i legami fra spionaggio e letteratura non passano solo per i romanzi sull’argomento, ma anche per scrittori che appartennero alla cerchia segreta o ne furono comunque coinvolti.
«La sopravvivenza è un’infinita capacità di sospettare» ha scritto John Le Carrè. Un motto su misura per la spia di professione. Lui, che più di altri, ha vissuto all’incrocio tra la finzione e la vita reale dell’agente segreto. Lo fece nella Berlino divisa dal Muro, soprannominata l’Agentenfunk, l’antenna degli agenti segreti. Tanto che per pubblicare i romanzi destinati a consacrarlo, Le Carrè dovette scegliersi lo pseudonimo con il quale oggi è famoso, mentre si chiama David Cornwell. La sovrapposizione delle due identità ormai lo avviluppa. Come si legge all’inizio della sua biografia, John Le Carrè, di Adam Sisman: «Ha reinventato episodi del suo passato a fini narrativi, e quello che adesso ricorda tende ad essere reinvenzione narrativa più che quanto accaduto davvero».
In L’Outsider, Frederick Forsyth, innovatore del thriller geopolitico, rivela di avere fatto il corriere in incognito per gli americani durante un’operazione a Berlino Est.
Ian McEwan in Miele dà voce a Serena Frome, una ragazza che raggiunge la maggiore età verso il 1970. Figlia di un prelato anglicano, si laurea in matematica a Cambridge e viene reclutata dal professor Tony Canning nel MI5, il servizio di sicurezza britannico. McEwan utilizza i meccanismi di un genere per costruire il più completo e illuminante paradigma sulla doppiezza inglese e sulla maestria con la quale l’avversario sovietico fu sconfitto non solo con la pressione nucleare degli Stati Uniti, bensì con superbe capacità d’infingimento manovrate da Londra.
Marquez al servizio di Castro?
Nell’ottobre 2009, da Città del Messico, le agenzie batterono una notizia sconcertante. Gabriel Garcia Marquez sarebbe stato «un agente della propaganda al servizio dell’intelligence cubana» ed avrebbe avuto un ruolo nel traffico d’armi tra l’isola caraibica e il suo Paese, la Colombia. Risultava dagli archivi dei servizi segreti messicani, che tra il 1967 e il 1985 avevano spiato le attività dello scrittore, residente dagli anni ’60 nello stato dell’America centrale. Ad avvalorare le esternazioni della DFS, Dirección Federal de Seguridad, l’intelligence di Città del Messico, contribuiva quanto aveva già sostenuto il critico Gerald Martin in Vita di Gabriel Garçia Marquez. Su uno dei documenti declassificati del servizio segreto messicano si riporta: «Oggi 30 aprile 1980, alle 10.43, è arrivato all’aeroporto di Città del Messico un aereo Antonov, di fabbricazione sovietica e proveniente dall’Avana, che, su ordine di Fidel Castro, porterà Garcia Marquez a Cuba per celebrare il primo maggio». A “Gabo” si imputavano connivenze con la guerriglia colombiana del movimento M-19. Inoltre, da Città del Messico si faceva rilevare che Garcia Marquez aveva girato i diritti di Cronaca di una morte annunciata al governo di Fidel Castro. E se lo scrittore avesse rivelato all’Avana i colloqui con i politici europei che frequentava?
Da Shakespeare al doppio-giochista Philby
Periodicamente tornano le vicende di George Orwell, che informava sui comunisti i servizi inglesi e ne era a sua volta sorvegliato per i suoi trascorsi di sinistra, ricevendo però un nulla osta finale, perché lo si riteneva semplicemente socialdemocratico, non filorusso.
La storia dei rapporti fra letterati e centrali spionistiche tocca addirittura i classici. Il drammaturgo Christopher Marlowe collaborava attivamente con gli apparati segreti della corte elisabettiana. Quasi certamente la sua morte, avvenuta in una brutale rissa da taverna, nascondeva l’inevitabile eliminazione di una personalità ormai troppo addentro ai complotti del potere. Di contiguità con i servizi segreti si parlò per lo stesso Shakespeare, che nel suo teatro non manca mai di scavare dietro le facciate di corti, famiglie e figure di grande influenza storica.
A Cambridge, negli anni tra le due guerre mondiali, studiarono le menti migliori dell’aristocrazia di Sua Maestà. Fra cui Kim Philby. Un giovane che lasciava trasparire i traguardi ambiziosi cui puntava. Entrato a far parte del MI6, il servizio di spionaggio estero del governo inglese, Philby aggiungeva ai requisiti della spia quelli dell’uomo di cultura. Per un certo periodo fu il corrispondente da Beirut per il Times, il giornale dell’establishment. Invece, faceva il doppio gioco dall’inizio. La sua occulta fedeltà moscovita era maturata proprio a Cambridge, negli anni universitari, quando l’Urss sembrava l’unico baluardo in grado di resistere alla barbarie nazista. Dopo sospetti che nessuno osava spingere all’estremo, Philby fu definitivamente smascherato nel 1963 e costretto a fuggire dietro la cortina di ferro. Riapparve a Mosca con la medaglia dell’Ordine di Lenin e il grado di generale del Kgb.
Nelle fila inglesi, un collega non smise mai di considerarlo amico. Era Graham Greene, uno dei più raffinati scrittori del Novecento, cui si devono romanzi che elevano il giallo e la spy-story ai livelli della prosa d’arte. Si ricordino, per tutti, Una pistola in vendita, Quinta colonna, Il terzo uomo, Il nostro agente all’Avana e Il fattore umano. Greene era stato cooptato nell’MI6 dalla sorella Elizabeth, e nel corso della seconda guerra mondiale venne inviato in Sierra Leone, avendo come supervisore proprio Philby. Malgrado le sue frequenti accuse agli Stati Uniti, lo scrittore seguitò la collaborazione con i servizi segreti di Sua Maestà fino alla morte, stando al suo biografo ufficiale Norman Sherry.
William Somerset Maugham firmò la serie di Ashenden. Protagonista uno scrittore che viaggia nell’Europa della prima guerra mondiale per svolgere incarichi non meglio specificati di origine governativa. Questo porta Ashenden a contatto con ladri, truffatori, ricattatori e donnine allegre. Il campionario ricorrente dello spionaggio. Maughan aveva effettivamente eseguito incarichi governativi.

James Bond, l’icona di Fleming spia mancata
Prima di lui, un diplomatico di carriera approfittò del patrimonio di conoscenze accumulate al Ministero degli Esteri britannico per trarne libri che avrebbero molto influito sul romanzo di spionaggio contemporaneo. Era John Buchan, autore de I 39 gradini, trasposto più volte al cinema, anche da Alfred Hichtcock. Il protagonista è Richard Hannay, ingegnere minerario in Sudafrica, che tornando a Londra scopre un complotto. Lo si ritroverà negli altri romanzi di Buchan, ambientati in un’epoca che rsentaval’abisso in cui sarebbe precipitato il mondo con gli spari di Sarajevo.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Ian Lancaster Fleming, classe 1908, entrò nel Servizio Informazioni della Marina, su proposta dell’Ammiraglio Godfrey, che lo volle suo assistente con la sigla 17F. Era la firma ai rapporti, derivata dal numero del dipartimento per cui lavorava e dall’iniziale del suo cognome. Fleming veniva da un’ottima famiglia scozzese, pur non avendo brillato negli studi. Fallita la carriera militare per aver messo incinta una cameriera di Eton e abbandonato Sandhurst. Bocciato all’esame per entrare nel corpo diplomatico, era stato corrispondente della Reuters da Mosca nel periodo delle purghe staliniane, perdendosi uno scoop sulla condanna di tecnici delle industrie Metro-Vickers accusati di spionaggio, infine l’agente di cambio nella city di Londra. Il massimo del suspense, Fleming lo visse nel 1941, transitando in Portogallo sulla via degli Stati Uniti con l’Ammiraglio Godfrey. Al Casinò di Estoril c’era un’accolita di nazisti intorno al tavolo del baccarat. Fleming tentò di sbancarli e perse clamorosamente. L’Ammiraglio dovette coprire l’ammanco. Terminate le ostilità, Ivar Bryce, grande amico di Fleming, gli domandò cosa intendesse fare. La risposta: «Scriverò il più grande romanzo di spionaggio di tutti i tempi». Sarebbe improprio affermare che ci riuscì, ma James Bond è un’icona.
Di spy-stories ne ha pubblicate il consigliere di Nixon E. Howard Hunt, dai trascorsi nella CIA, ammessi con un’autobiografia dal titolo smaccato: American Spy. Strada intrapresa anche da Stella Rimington, la prima donna a dirigere l’MI5, negli anni ’90, e successivamente autrice apprezzatissima di romanzi di spionaggio.
Vista questa serie di esempi, ha ragione lo studioso Gabriel Veraldi a ravvedere la genealogica della spy-story, che delinea “un quasi monopolio anglo-americano a maggioranza britannica”.

L’espiazione di Ignazio Silone
Denso e sofferto, il percorso di Ignazio Silone. Gli si imputa di avere spiato per conto di Mussolini i suoi compagni del PCI. Il segreto di Luca andrebbe quindi letto come l’espiazione pubblica di chi è diviso, lacerato, tra lealtà inconciliabili, contrapposte. Un oneroso bagaglio da trascinarsi nell’ingannevole zona d’ombra che si estende fra i privilegi della cultura e la pratica dello spionaggio, non a caso definita dallo storico Phillip Knightley “la seconda più antica professione”.

 

 

 

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