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Sulle orme di Salgari, Manfredi scopre l'antico fascino di Shanghai

Con "Splendore a Shanghai" lo scrittore, cineasta, cantautore e fumettista riporta il romanzo italiano lontano dall'angustia del minimalismo giovanile

Sulle orme di Salgari, Manfredi scopre l'antico fascino di Shanghai
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2 Gennaio 2018 - 18.07


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Enzo Verrengia

È nella provincia italiana che viene più forte la voglia di avventura. Si veda Emilio Salgari. Al suo esotismo visionario rimanda Splendore a Shanghai, di Gianfranco Manfredi, cantautore, cineasta, fumettista, ecc. Eclettismo sintetizzato nel libro.
La musica, innanzi tutto. Il protagonista si chiama Giannetto, soprannominato Doremì perché nel 1925, epoca del cinema muto, accompagna al pianoforte le proiezioni della sala Eden di Senigallia, la cittadina natale di Manfredi. Qui, prima che salgariano, lo sfondo è felliniano. Del resto la riviera anconetana non dista molto da quella romagnola. Ecco gli amici del posto, Iole, la prostituta complice e confidente, la casa avita, dove Doremì, di padre indigeno e madre inglese, abita da solo, perduti ambedue i genitori. Ma si cambia presto ambientazione. A Senigallia arriva il conte Aristide Paolini, flâneur giramondo e amico personale di Mussolini. L’aristocratico ascolta il giovane pianista riempire di note il silenzio assoluto in cui ruotano le bobine de Il ladro di Bagdad, di Raoul Walsh, con Douglas Fairbanks, Julanne Johnston e soprattuto, nel ruolo della schiava mongola, Anna May Wong, la prima diva cino-americana di Hollywood. Doremì la vede sullo schermo e ne è ammaliato, tanto da lanciarsi in audaci virtuosismi sulla tastiera. Paolini cerca un musicista per la tournée a Shanghai di una sua protetta, la giunonica soprano Maria Teresa Crippa, eterna sostituta delle prime donne operistiche e condannata a una carriera di basso profilo.
Il conte scrittura Doremì e gli fa da pigmalione durante la breve vigilia che precede la partenza su un piroscafo della Marina Militare italiana. Prima tappa, Porto Said, descritto da Manfredi con sapida ed essenziale maestria di affabulatore: «Gran traffico di carri, carretti, carrozze, automobili e camion. Arabi in bicicletta. Che posto era quello? Più inventato di un film, eppure tanto più reale».
Questi parametri evocativi tornano per la tappa di Hong Kong e la meta finale: Shanghai. Manfredi costruisce intorno a Doremì e compagnia bella scenografie e figure umane che mescolano Fellini al Ridley Scott di Blade Runner. Tutto condito dal suono e dal ritmo del primo jazz, intriso di ragtime. Con un erotismo costante seppure non invasivo. La soprano esige da Doremì tributi notturni nei quali è lei a condurre. In seguito gli preferirà il tenore russo Andrej Petròvic. Le strade di Shanghai abbondano di quello che oggi si chiama turismo sessuale. Il pianista di Senigallia viene iniziato a tale paradiso del peccato (sì, è una contraddizione in termini, ma rende l’idea) da Ernesto, il factotum cocainomane del conte Paolini, che munisce Doremì di una pistola per girare di notte.
La sarabanda picaresca si complica di incontri, colpi di fulmine e irruzioni della Storia con la S maiuscola. A Doremì,comunque, non importa di Chiang Kai-shek, della guerra civile in Cina e di quella prossima ventura con il Giappone, ma soltanto dei suoi sogni musicali e amorosi.
Splendore a Shanghai è un’impresa letteraria epica e strabiliante. Gianfranco Manfredi riporta il romanzo italiano fuori dall’angusta gabbia del minimalismo giovanile che infesta le librerie, in una vastità di temi, di riferimenti, di stile e di geografia suggestiva, alla Salgari, appunto.

 

Gianfranco Manfredi, Splendore a Shanghai (Skira ed., pp. 448, Euro 25,00)

 

 

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