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La donna e il cane, chi osa amare di più?

L'ultimo romanzo di Romana Petri entra nelle viscere della vita e della narrazione. In 'Il mio cane del Klondike' appena uscito per Neri Pozza, la scrittrice riprende concetti, sentimenti, sguardi. Affetti

La donna e il cane, chi osa amare di più?
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21 Novembre 2017 - 16.46


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di Delia Vaccarello

 

Esisterà mai una storia tra cane e padrone in cui il padrone abbia amato più del cane? Fulminante Romana Petri. Chi ama di più: chiederselo è entrare nel cuore del tormento amoroso. Direte voi: ma vuoi mettere? L’amore che lega umano e animale non è paragonabile a quello tra gli esseri umani.
Ne siamo certi?
Romana Petri racconta in prima persona la storia tra lei e Osac, il cane abbandonato che non può non raccogliere per strada, bestia enorme, fuori misura non solo di taglia, ma per furia, comportamenti, sentimenti. Noi, che seguiamo Petri da tempo, Osac lo conosciamo già. Ne “Il mio cane del Klondike” appena uscito per Neri Pozza, l’autrice ci svela tutto il percorso a partire dall’inizio, eppure lo abbiamo visto prestare forsennatezza e brutale gioia di vivere a un’altra bestia-personaggio. In “Tutta la vita”, romanzo che gronda speranza, tra vicende storiche di atrocità, c’è un cane con tre rughe verticali sulla fronte, grosso, che peserà cinquanta chili anche ridotto pelle e ossa, un cane opposto al quattro zampe che lo ha preceduto, che era perfetto, quasi una idea platonica del cane, l’Arduino. Vinciguerra si chiama il peloso indemoniato di “Tutta la vita” ed è l’Osac di cui Romana Petri con generosità racconta ne “Il mio cane del Klondike”, biografia che non può, come ogni storia di amore degna di questo nome, non intrecciarsi con la storia dell’altro della coppia, cioè l’autrice in persona.
Parlando del cane furioso, creatura estranea e intimissima che prende il sopravvento, Romana Petri affonda la penna nei temi a lei più cari.
Primo, amore è sporgersi, andare verso, darsi, tendere verso l’Altro. In “Giorni di spasimato amore” (Longanesi), la scrittrice ci ha narrato l’amore che non può non essere che inclinazione. L’opera narra di un uomo “femminile”, disposto al delirio pur di alimentare una passione che non conosce limiti terreni, un uomo che “ama di più”, e nasce dall’ispirazione che ha colto Romana Petri guardando un quadro assai noto. “Sono stata folgorata dal quadro di Leonardo che rappresenta Sant’Anna, la vergine e il bambino con l’agnellino, per amare bisogna inclinarsi” dice Romana Petri e da lì ha scritto un romanzo sull’amore assoluto, sul sentimento che ci spinge a incontrare l’Altro solo a partire dalla nostra incompletezza. Protagonista è chi riesce a provare devozione, ad abbandonarsi disancorandosi dalla realtà, a dire nei confronti di chi non c’è più non già “lo amavo” ma “lo amo” e basta. La sorpresa di “Giorni di spasimato amore” , è che a spasimare non è una donna, ma un uomo, Antonio, posseduto dal fantasma di Lucia, la donna amata morta.
Un uomo, una donna. Stiamo parlando dell’amore tra umani come in genere lo riconosciamo.
Ne “il mio cane del Klondike” a sporgersi è l’animale. Leggiamo “mi dicevo, sporgersi, la posizione dell’amore è quella di chi si sporge”. Ed è la posizione di Osac. “Per lui c’era solo la nostra storia, quell’incontro che lo aveva salvato dalla morte, l’attaccamento morboso, quel noi contro l’intero mondo che gli era entrato nel sangue fin dai primi giorni”.
Ma si sporge solo Osac? Romana Petri narrando di Osac, racconta di se stessa, possiamo dire della se stessa “bestiale”. Originaria? E non stupisce che lo faccia dopo aver dato alle stampe “Le serenate del Ciclone” (Neri Pozza), romanzo atteso sulla figura imponente dell’amato padre. L’autrice, narrando del cane, rivive la nascita del figlio, la scelta di trascorrere la gravidanza insieme ad Osac nella dimora umbra voluta dal padre. Qui descrive il dialogo intimo con il padre, presente dentro di lei nell’amore, e il figlio che le cresce in grembo. Ad assisterla in questa passaggio di vita da nonno a nipote, in questa trasmigrazione di anime, come fosse uno sciamano, è proprio il cane.
La storia di Romana Petri si mischia con quella di Osac, entrambe viscerali, impetuose, incalzanti. E se si contagiano per irruenza e disposizione a soffrire (vedi i dolori del parto che la giovane madre sceglie di non lenire per vivere a pieno la nascita), animale e umana si scambiano anche il linguaggio. Osac parla, ha una lingua sua, non ha vocali ma solo y, risponde spesso “chy chyzzy vyy ( che cazzo vuoi). Stando al suo fianco, Romana forgia vocaboli come “gnaccuso” che vuol dire inzeppato “come se dentro un cappello ci volesse stare tutto un palazzo”. (Ci chiediamo: si tratta di una lontana citazione del piccolo principe che dentro il disegno del cappello ci mette il boa che ingoia l’elefante?)
L’autrice racconta dell’amore che si sporge e della vita che, se è tale, non si può padroneggiare. “Del doman non v’è certezza” canticchiano la donna e il cane, suggellando i loro momenti intimi, in macchina, al ritorno dal lavoro, in casa, in gita.
Torna anche l’interrogativo fulminante. Esiste essere umano che ami il cane più di quanto il cane lo riami?
Vero è che quando Osac andrà via qualcuno non potrà darsi pace. “Scoppiò in un pianto che mescolava alle urla…mi guardò prima con rabbia poi con disperazione… “è stato il mio unico cane”…”.
Chi è? Chi somiglia a un cucciolo di cane in questo dolore che squarcia le viscere…? E’ il figlio di Romana, colui di cui Osac è stato gelosissimo.
“Certo il dolore di un bambino – conclude la scrittrice -, l’età dell’uomo in cui è più vicino all’animale”.

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