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Mussolini, Stalin e Mao: dittatori feroci dal verso (e dal grilletto) facile

Lo scrittore e giornalista Ramm riepiloga la passione dei tiranni per i versi. Arriva a Kim Il-sung passando per Saddam Hussein. E ricorda che le pretese letterarie non garantiscono nulla ai cittadini.

Mussolini, Stalin e Mao: dittatori feroci dal verso (e dal grilletto) facile
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1 Novembre 2017 - 17.58


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Il poeta inglese W.H. Auden in Epitaffio per un tiranno già del 1939, riferito al temuto e odiato Hitler, scrisse: «La poesia che inventò era facile da capire». E se quel passo non necessariamente ci deve mettere in guardia dai testi troppo facili, ma ricorda che un testo poetico di facile comprensione non equivale a un animo gentile, certo non devono ingannarci i dittatori quando indulgono nella passione per le arti o, in questo caso, per la poesia. Lo scrittore e giornalista della Bbc Benjamin Ramm in uno stuzzicante articolo Why tyrants love to write poetry partendo da un libro di Ulrich Gotter Tyrants Writing Poetry ricostruisce la pratica del verseggiare che accomuna gente come Nerone, responsabili di genocidi come Stalin, tiranni della nostra era come Saddam Hussein o terroristi come Bin Laden. Autori di massacri e sofferenze indicibili e, al contempo, di versi mediocri carichi di sentimento o, per meglio dire, di sentimentalismo, osserva il giornalista

Il prototipo del tiranno-poeta tramandato da storici come Tacito è l’imperatore romano Nerone (37-68 d.C.), ricorda Ramm. Arrivando al ‘900, Ramm ricorda che «inevitabilmente i dittatori canalizzano le loro delusioni artistiche nella politica» con esiti nefasti e ricorda che pure Mussolini si cimentò nella poesia. Sul fronte russo, Stalin da giovane scrisse poesie in georgiano «con un’eleganza ornamentale sconfinante nel kitsch e traboccanti di clichés naturalistici» ma, con il suo potere, fu incluso in antologie come esempio di letteratura georgiana e pubblicato da riviste letterarie. E ricordiamo di passaggio che il dittatore sovietico non esitò a mandare a morte poeti autentici come Mandel’štam.

L’imprevedibile e folle dittatore nord coreano Kim Il-sung nel 1992 scrisse una poesia al figlio Jong-il oltre ad avere ascritti alla sua penna testi teatrali e teorici. Né Bramm dimentica Mao Zedong, che per il giornalista cadde in una contraddizione che, per un cittadino cinese, avrebbe potuto essere fatale: «La sua poesia è ortodossa nella forma e classica nei temi. Mao scriveva nello stile antico, anche quando era stato denunciato come elitista e superato. Indugiò nei suoi gusti anche se li proibì agli altri». Anche se al leader cinese il giornalista concede una lingua lussureggiante e riconosce qualche talento, i suoi testi dimostrano come la raffinatezza artistica non garantisca politiche meno feroci.

Nel caso di Radovan Karadžić, il «macellaio della Bosnia» giudicato colpevole di genocidio, una sua poesia del 1971 su Sarajevo fu usata come una delle tante prove della sua colpevolezza. E anche l’Ayatollah Khomeini scrisse poesia, in persiano, seguendo il corso di due grandi poeti sufi, Rumi e Hafez, che celebravano il vino e l’amore sensuale. L’opposto della figura pubblica di Khomeini, ricorda Bramm.

Bin Laden si è dilettato come poeta e non ha smesso di scrivere poesie perfino durante la detenzione nel 2013 l’iracheno Saddam Hussein. Al che lo scrittore e giornalista della Bbc conclude il suo testo con Auden su Hitler, tanto per ricordarci che l’apparente amore per la cultura in questi casi è sfoggio, vanagloria, esibizione di potere, e non significa meno ferocia, meno paranoia.

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