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Il dolore della guerra. Jabalya sotto attacco

Morte, disperazione ma anche smisurati gesti di umanità nella città martoriata a nord della striscia di Gaza

Il dolore della guerra. Jabalya sotto attacco
Jabalya, lo sguardo dei bambini
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14 Dicembre 2023 - 12.23


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di Lavinia Tellan

Questa è una delle esercitazioni svolte dalle studentesse e dagli studenti che stanno frequentando il laboratorio di giornalismo, tenuto dal Professore Maurizio Boldrini. Sono da considerarsi, per l’appunto, come esercitazioni e non come veri articoli.

Il 10 ottobre del 2023, la città di Jabalya a nord della Striscia di Gaza, viene svegliata alle 05:48 del mattino da un attacco missilistico da parte di Israele. Io ero lì da un paio di giorni e sono saltata giù dal letto e corsa in strada come tutti.

Così ho visto con i miei occhi come la vita delle persone in pochissimi secondi viene distrutta: case che crollano, persone che scendono in strada disperandosi, bambini che piangono e corpi che cedono.  Nel panico che si diffonde, la mia attenzione viene colpita da una bambina. Una bambina che, in braccio a suo padre, lo stringe con forza come se avesse paura di essere abbandonata. Il padre intanto sta urlando e si sta muovendo con in braccio la sua bambina, come se fosse in cerca di qualcosa o qualcuno.

Nelle macerie, la gente si muove, cerca e si dispera. Molti sono feriti. A pochi metri da me c’è un uomo che sta urlando mentre si guarda la gamba destra sanguinante e con quell’urlo mi trasmette tutta la disperazione di chi soffre e in pochi secondi ha perso tutto e che, forse, non si dispera per pur la brutta ferita alla gamba. Chissà, oltre alla casa, cosa quell’uomo avrà perso; chissà se ha perso una figlia, una moglie o un amico caro.

Le urla e la disperazione delle persone si stanno trasformando piano piano in un’eco che risuona nelle mie orecchie come un qualcosa che mi risulta molto difficile da spiegare, ma che sono certa di non dimenticare. Sono le 06:15, stanno arrivando le prime ambulanze. I feriti sono tanti, forse un centinaio e appena la prima ambulanza arriva, la gente l’assale: sono quasi tutte donne, che disperatamente urlano: “musaaʿada”, ossia “aiuto” in arabo.

Tra queste donne, c’è un bambino, che tiene la mano alla sua mamma e che ha il volto rivolto verso di me; mi guarda, ma non piange. Gli occhi però sono colmi di lacrime trattenute a stento, ho l’impressione che stia per rivolgersi a me, ma non lo fa. Non parla ma tiene la sua mano stretta a quella della sua mamma, come se non volesse staccarsi da lei, come se lei fosse l’unico scudo rimastogli. Intanto gli operatori dell’ambulanza scendono dai furgoni e si dirigono verso i feriti: solo quattro dei feriti presenti vengono caricati sull’ambulanza, gli altri sono costretti ad aspettare le prossime mentre si continuano a cercare i dispersi.

Una bambina sta cercando la madre, continua ad urlare “mamma dove sei? Sono Rasha, rispondimi ti prego”. La risposta proviene da una voce stridula: “sono qua”. Allora la bambina e altri tre uomini iniziano a scavare tra le macerie con le mani nude, senza sosta. Dopo minuti infiniti di disperato affanno appare la testa della donna, il lavoro di scavo si intensifica e riescono a tirarla completamente fuori. Appena la bimba vede la mamma, le salta addosso e la stringe fortissimo. Iniziano entrambe a piangere restando abbracciate a lungo.

Mi sposto solo di qualche metro e vedo un uomo di mezza età, ha gli occhi al cielo e non piange, pare smarrito. Borbotta e, quando mi avvicino, sento che sta ripetendo continuamente: ”ho perso tutto, sono un uomo morto”. Lo invito a sfogarsi ma per tutta risposta si copre con le mani la faccia ed inizia un pianto disperato.

Le ambulanze sono poche, arrivano forse ogni mezz’ora e solo dopo le 9 tutto sembra essere leggermente più tranquillo anche se la stanchezza segna i volti e i corpi di tutti. Vedo bambini, che abbracciati alle proprie madri o ai propri padri, si addormentano in piedi, esausti.

Ma non è ancora finita e delle grida provengono dalle macerie. Uomini e donne iniziano a scavare con le proprie mani e con un qualsiasi oggetto che trovano. Dopo poco si intravede la testa di un uomo, giovane. Riescono a estrarlo e si notano ferite su tutto il corpo ma i suoi spasmi di dolore si trasformano in urla di gioia appena intravede la sua mamma che corre ad abbracciarlo.

Alle 10 l’aria che si respira appare leggermente più leggera. I dispersi sono ancora molti e i parenti dei feriti che sono stati portati via con l’ambulanza hanno un volto più sereno. Tutto sono pronti a collaborare e coloro che hanno ritrovato i loro dispersi mostrano una forza d’animo incredibile andando ad aiutare chi ancora non ha trovato i propri cari.

La città di Jabalya è una città distrutta. La distruzione di cui parlo è sia fisica che morale. Emozioni e  immagini  che non si possono scordare.

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