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“Letter to Anna", Il docu-film sulla Politkovskaja testimonia la necessità del buon giornalismo in tempo di guerra

Nella Limonaia del Tribunale Civile di Siena, è stato proiettato il docu-film dedicato alla giornalista investigativa russa, uccisa il 7 ottobre del 2006 per aver raccontato gli orrori e le nefandezze della seconda guerra cecena. L'iniziativa è stata promossa da " Area Verde Camollia 85”.

“Letter to Anna", Il docu-film sulla  Politkovskaja  testimonia la necessità del buon giornalismo in tempo di guerra
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5 Giugno 2022 - 17.49


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di Marialaura Baldino

A inizio settimana abbiamo scritto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, del loro sacrificio compiuto per costruire le strade della verità. Oggi invece dalla Somalia ci spostiamo in Russia, a ottobre del 2006, quando Anna Politkovskaja, giornalista investigativa, viene trovata priva di vita nell’ascensore del suo palazzo.

Anche lei, come la Alpi, attraverso il suo lavoro, ha cercato di fare in modo che quelle strade fossero accessibili a tutti, descrivendo la realtà per quello è, e non piegandola a favore di giochi di potere e costruzioni di propaganda.

In sua memoria, lo scorso lunedì sera, il comitato Area Verde Camollia 85, che cura l’area esterna e la Limonaia del Polo Civile del Tribunale senese, ha così deciso di proiettare “Letter to Anna – The story of journalist Politkovskaja’s death”. Un docu-film indagatorio, dove il regista Eric Bergkraut, attraverso una lettera dialogata, fa luce sul lavoro svolto dalla giornalista nel raccontare non solo la conduzione e le implicazioni dell’esercito russo nella guerra in Cecenia sotto la conduzione di Putin, ma di come egli, durante il conflitto, abbia violato i diritti umani e lo stato di diritto del paese del Caucaso.

L’incontro si è aperto con un’introduzione di Maurizio Boldrini, docente di Storia del Giornalismo e ospite della serata. Il professore ha ricordato che, oggi come allora, i giornalisti e gli operatori pagano a caro prezzo il lavoro svolto in nome della libertà di stampa. Il 2021 da molti è stato definito come l’anno nero del giornalismo. I numeri sono chiari: 293 fotoreporter in tutto il mondo, nello svolgimento del loro lavoro, sono stati incarcerati, 24 uccisi per quello a cui stavano lavorando e altri 18 sono invece deceduti in circostanze sospette.

Riprendendo un passaggio del libro “La Russia di Putin”, scritto dalla Politkovskaja nel gennaio del 2003, il docente evidenzia come ella abbia dato un’impronta permanente al giornalismo d’inchiesta. Una professionista capace di anticipare ciò a cui oggi stiamo assistendo in Ucraina; una giornalista la quale bellezza derivava solo dalla consapevolezza di ciò che faceva, di quello che scriveva e della responsabilità deontologica che ne derivava.

Il libro citato, infatti, descrive una Russia di inizio anni duemila che non era alla portata di tutti; un paese dove Putin, allora agli esordi, cominciava a tessere la trama del suo irrefrenabile potere. Un libro che getta le basi per un’analisi critica dell’ascesa dell’autocrate russo, ma che approfondisce anche la rete di corruzione e la macchina della propaganda che dilagavano in quegli anni.

Il docu-film apre con una frase che lascia di stucco. La giornalista, in un breve taglio di scena dice: “Capisco come mai mi chiediate come faccio ad essere ancora viva. È senza dubbio un miracolo”. La sua voce pacata, composta, il suo sguardo saldo. Poi alcuni frammenti di immagine che la ritraggono a pochi minuti dalla morte.

E così, attraverso la sua lettera, il regista non fa altro che ripercorrere a ritroso tutto la vita lavorativa della Politkovskaja, a partire dal ’99, quando entrò a far parte della redazione della Novaja Gazeta, un periodico russo indipendente di orientamento liberale. È qui che la giornalista aveva iniziato a pubblicare alcuni libri e scritti che criticavano fortemente le azioni belliche di Putin nel secondo conflitto ceceno. Una guerra che lei definiva come coloniale, dove era in atto un genocidio nei confronti di una parte del popolo autoctono e dove attentati di terrorismo imperversavano nel paese conquistato. Diceva: “i giornalisti e gli attivisti dei diritti umani hanno raccolto talmente tante prove che ci dovrà per forza essere un processo, l’umanità dovrà per forza porre fine a tutto ciò”. Molte furono le minacce di morte ricevute in quel periodo. Ma lei non ha vacillato.

Ha continuato quotidianamente a diffondere le sue valutazioni e i numerosi rapporti sull’andamento del conflitto. Ogni articolo era pieno di esposizioni critiche non solo nei confronti del regime filo putiniano, ma anche degli abusi e delle violazioni commesse dalle forze militari russe, da quelle paramilitari cecene e di come l’amministrazione del paese da parte dei Kadyrov – padre e figlio – non abbia fatto altro che creare terrore tra la popolazione civile inerme.

Una voce scomoda nel processo di costruzione di gradimento di Putin, in continua lotta contro uno stato che non proteggeva gli interessi suoi cittadini.

Poi il 2002, quando un gruppo di militanti ceceni presero in ostaggio 850 civili nel teatro Dubrovka di Mosca, con la richiesta di ritiro delle truppe russe dal paese e la fine della guerra. Una crisi durata più di due giorni. Tra le persone che presero parte alle trattive c’era anche la Politkovskaja, chiamata per la sua crescente influenza nella questione bellica. Come si sente da una scena del docu-film: “finché resto qui, nessuno si farà male”.

Nonostante vittima di avvelenamento durante un viaggio aereo, non ha interrotto le sue ricerche che l’hanno portata sempre di più a interfacciarsi con i civili ceceni intrappolati nel conflitto. Era diventata, per molti, l’ultima speranza di far sapere al mondo quello che stava realmente accadendo. Ma la pubblicazione del libro “La Russia di Putin” le aveva procurato molte intimidazioni da parte del Cremlino.

Prima della sua morte, stava lavorando ad un articolo sulle torture commesse da parte delle forze di sicurezza cecene, sotto il controllo dell’allora primo ministro Ramzan Kadyrov.

Ironico come la data della sua scomparsa, il 7 ottobre, coincida con il giorno del compleanno di Putin.

È così che il regista chiude il girato, non prima di sottolineare come l’ultima carta che una dittatura messa sotto accusa possa usare è un proiettile. L’azione finale di un potere talmente radicalizzato ma anche talmente corrotto che gli ha permesso di perdurare fino ad oggi.

Ciò che si evince dalle tante immagini e dai tanti dialoghi, attraverso le ricostruzioni, le osservazioni e gli interventi dei vari intervistati è l’enorme consapevolezza della giornalista, sicura che nonostante i pericoli che correva in patria, i suoi scritti avevano un valore più grande della semplice informazione.

Una realtà-specchio dei nostri giorni, compresi i protagonisti, gli eventi e le dinamiche.

È quindi con la stessa obbiettività e sincerità che contraddistingueva la Politkovskaja che dovremmo tutti enunciare le stesse parole della sua collega cecena: scusaci Anna, perché non abbiamo saputo proteggerti.

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