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Da “Bella ciao” al blues: quando la musica diventa protesta

Credere che la musica non possa o non debba essere politica significa sminuirne la potenza simbolica

Da “Bella ciao” al blues: quando la musica diventa protesta
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30 Marzo 2022 - 13.50


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di Lucia Mora

L’11, il 12 e il 13 aprile arriverà al cinema Bella ciao – Per la libertà, il docufilm di Giulia Giapponesi prodotto da Palomar-Rai-Luce che si propone di indagare la storia del canto simbolo della Resistenza, attraverso un fondamentale sguardo femminile. Troppo spesso infatti si parla solo di “partigiani” e non anche di “partigiane”: la regista inserisce così nel proprio documentario testimonianze non solo di donne di quell’epoca, ma anche di donne contemporanee che lottano o che hanno lottato in nome di quella canzone, come nel caso di una combattente curda che racconta l’importanza di Bella ciao per la lotta del suo popolo.

Dal dissenso sotto il regime fascista fino al Festival della Gioventù Democratica a Praga del 1947, Bella ciao è un canto che, pur essendosi modificato nel tempo, è diventato patrimonio collettivo dell’umanità. «Un salvavita per i diritti» (come lo ha definito Vinicio Capossela, peraltro presente nel docufilm di Giapponesi) che da sempre è simbolo di protesta. Ne sa qualcosa – a proposito di sguardo femminile – Giovanna Marini, icona della musica popolare italiana e nucleo fondante del Nuovo Canzoniere Italiano con il quale, al Festival dei Due Mondi di Spoleto del 1964 (e in particolare allo spettacolo Bella ciao, ideato da Roberto Leydi e Filippo Crivelli), suscitò uno scandalo passato alla storia per aver proposto il canto anarchico O Gorizia, tu sei maledetta nella sua versione integrale, compresa la strofa “Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù”.

I Canti della Resistenza sono una delle espressioni più note e più nobili della canzone di protesta, ma non certo l’unica, anzi. Anche considerando il solo panorama musicale italiano si troverebbero comunque decine e decine di brani che si inseriscono all’interno del filone di lotta e di ribellione. Basti pensare al compianto Paolo Pietrangeli e alla sua Contessa, diventata un vero e proprio inno per gli operai e gli studenti che animavano le piazze sessantottine, o all’attività dei Cantacronache, complesso di poeti e di musicisti formatosi a Torino nel ‘57 che denunciava le criticità italiane del secondo dopoguerra. L’esperienza dei Cantacronache influenzò profondamente la generazione di cantautori attivi durante gli Anni di piombo: Fabrizio De André, Giorgio Gaber, Francesco Guccini e Franco Battiato, per fare qualche nome tra i tanti intellettuali dell’epoca.

Eppure, c’è ancora chi storce il naso quando si accosta la parola “intellettuale” a un cantautore. Come se la politica fosse solo questione di leggi, di parlamenti e di cravatte e non fosse piuttosto un insieme di scelte, di ideali e di valori. Se gli artisti si occupassero solo di pentagrammi e non anche delle crepe della società, un intero genere musicale non esisterebbe, perché il blues non è altro che la creatura nata dai lamenti e dalla sofferenza degli schiavi neri oppressi dai bianchi nelle colonie americane. E Dio solo sa quanto sarebbe mesto e impoverito un mondo senza blues.

Quanto sarebbe misero un mondo senza le canzoni della Nueva Canción Chilena, il movimento musicale che negli anni Sessanta protestava contro povertà e ingiustizia sociale in Cile e che fu talmente influente da perdere uno dei suoi esponenti più illustri, Victor Jara, torturato e ucciso in seguito al colpo di Stato del 1973. O senza Where Are You Now, My Son?, il disco con cui Joan Baez sempre nel ‘73 si scagliò contro la guerra in Vietnam, inserendo tra le tracce anche registrazioni di un bombardamento statunitense avvenuto ad Hanoi nel Natale del ‘72.
Piaccia o non piaccia, la musica è una forma di pensiero e, come tale, può essere critica e politica. Sarebbe impossibile e anche piuttosto ingenuo non riconoscerne la capacità di unire le persone e di dare voce ai loro sentimenti, affinché possano incontrarsi in un orizzonte comune. Del resto, è esattamente il motivo per cui fa (giustamente) paura al potere che, da sempre, cerca di reprimerla con la censura. Se così non fosse, cioè se la musica non avesse influenza politica, perché il maestro del folk Woody Guthrie avrebbe appiccicato l’adesivo “This machine kills fascists” sulla propria chitarra, attribuendo allo strumento la capacità di “uccidere” le dittature?

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