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Gamba: «Non dimentichiamo Sandra Pinto, metteva l’arte al servizio del bene pubblico»

Uno studioso descrive la grande storica dell’arte da poco scomparsa e la sua azione civile: tra tanti lavori risistemò la Galleria nazionale d’arte moderna a Roma e curò mostre epocali

Gamba: «Non dimentichiamo Sandra Pinto, metteva l’arte al servizio del bene pubblico»
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30 Novembre 2020 - 18.05


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Il 21 novembre scorso a 81 anni moriva a Roma per un malore Sandra Pinto, storica dell’arte già allieva di Giulio Carlo Argan che tra i tanti meriti rivoluzionò la Galleria nazionale d’arte moderna nella capitale. Anzi tutto da funzionario pubblico dava un ruolo civile all’esercizio della propria disciplina. I grandi media, presi forse dalla pandemia, non sembrano averla ricordata come meritava. Ne disegna un ritratto per globalist Claudio Gamba, docente all’Accademia di belle arti a Sassari e storico dell’arte sempre attento tanto alla ricerca quanto all’arte inserita nella politica culturale del nostro paese.

di Claudio Gamba: Per Sandra Pinto il lavoro nello Stato era “servizio civile”

Il 21 novembre è morta a Roma Sandra Pinto, grandissima storica dell’arte, funzionaria e poi soprintendente a Firenze, Torino e Roma, nota al pubblico soprattutto per l’organizzazione di grandi mostre e per gli anni in cui fu direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna. La sua integerrima attività nell’Amministrazione dei beni culturali, il rigoroso lavoro di direzione e riordino di musei, l’impegno nella tutela e i progetti educativi di coinvolgimento del pubblico, furono sempre guidati dall’idea del lavoro nello Stato come “servizio civile” e dalla “crucialità del presente nella cultura, e le responsabilità che esso assegna allo storico imponendogli di affrontare il nuovo da traghettare dal passato al futuro” (come dirà nel 2009 ricordando il debito nei confronti di Giulio Carlo Argan, che era stato suo maestro, senza vincoli di discepolato).

Un impegno militante, fondato però su una scrupolosa filologia e sull’attenzione ai dettagli, che si ritrova in tutto il suo percorso e che culmina nel libro a cui volle dedicarsi dopo il pensionamento nel 2004: “Gli storici dell’arte e la peste” (2006), ideato e curato insieme a Matteo Lafranconi, riunendo idealmente 40 studiosi di diversa formazione mentre fuori imperversava una terribile epidemia (cioè la marginalizzazione della storia dell’arte e l’eccesso di “beneculturalismo”). All’epoca il problema era la crisi profonda della disciplina, ma il tema rimane di grande attualità oggi che siamo nel mezzo di una vera pandemia dalle conseguenze ancora tutte da comprendere.

I suoi studi sulla pittura e sulla scultura dell’Ottocento, intessuti di riferimenti alla storia e alla cultura del loro tempo e in grado di superare la lettura meramente formalistica, hanno profondamente influenzato la riconsiderazione di temi e fasi sui quali si era abbattuto un lungo oblio (per comprensibili ragioni polemiche contro l’arte accademica incompatibile con le ricerche delle avanguardie); del resto, nel 1960, mentre la Pinto conduceva i suoi studi universitari, era uscito un fondamentale libro di Corrado Maltese, che per la prima volta ricostruiva le vicende dell’arte italiana dal 1785 al 1943 mettendo a frutto le metodologie marxiste.

La sua attività più significativa è legata a quattro importanti incarichi: il primo fu a Firenze con la direzione e il riallestimento della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti dal 1969 al 1980. Arrivò in un momento particolare, con la città ancora ferita dall’alluvione di tre anni prima, appena dopo le lacerazioni e i fermenti dei moti del ’68, con l’ampio dibattito seguito alla nascita delle Regioni nel 1970. Le profonde trasformazioni in atto rendevano urgente un ripensamento della cultura ottocentesca non più in chiave ideologica, ma con una verifica scrupolosa delle fonti, portata avanti grazie anche all’incontro con Paola Barocchi (che pubblicava il suo volume “Testimonianze e polemiche” nel 1972, anno anche della grande mostra londinese sul neoclassicismo). Ne vennero fuori esposizioni che hanno fatto epoca come “Romanticismo storico” (1973) e “Curiosità di una Reggia” (1979). Da tutti questi lavori sarebbe nato il suo saggio più importante: “La promozione delle arti negli Stati italiani dall’età delle riforme all’Unità”, uscito nella “Storia dell’arte italiana” Einaudi nel 1982 ma avviato sin dal 1974; quasi 300 pagine che cercavano di riannodare i fili di una storia fatta anche di arte accademica, di committenze ufficiali, di contraddizioni e ramificazioni di vicende solo apparentemente “minori”. Quel lungo saggio rimane il suo “libro” più importante anche se non volle mai riprenderlo e trasformarlo in opera a sé, un atteggiamento che ben ritrae quella sua visione inquieta della conoscenza, sempre in divenire, mai data per acquisita in modo definitivo.

Nel frattempo era tornata a Roma con l’incarico di curare l’archivio delle collezioni asiatiche in Italia lavorando presso il Museo d’arte orientale di Palazzo Brancaccio dal 1981 al 1986. Seguirono poi gli anni alla Soprintendenza per i beni artistici e storici del Piemonte, dal 1987 al 1994, con i grandi cantieri delle ville sabaude e il ripensamento del rapporto tra musei e territorio, il riordino della Galleria Sabauda condotto insieme a Michela di Macco, le importanti pubblicazioni con la trascrizione degli inventari e le nuove indagini storiche, che dimostravano ancora una volta il nesso inscindibile tra la conoscenza e l’azione di tutela, senza le quali non si può nemmeno condurre un ampio ripensamento delle forme di valorizzazione e di fruizione del patrimonio culturale.

Infine la direzione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dal 1995. La Pinto fu la prima a recepire le novità della legge Ronchey sui “servizi aggiuntivi”, con l’apertura del Caffè delle arti, della libreria, l’introduzione del merchandising, mentre si avviava il riordino degli allestimenti che, dopo quelli storici di Palma Bucarelli e una serie di interventi frammentari, avevano bisogno di essere ripensati complessivamente. Fu epocale la sistemazione delle sale dedicate all’Ottocento, con la ricostruzione delle boiserie originarie dell’edificio di Bazzani e un percorso cronologico che permettesse di capire la stratificazione di temi, movimenti e aree culturali, a partire dalla ricostituzione del corteo di divinità marmoree che conduceva all’Ercole e Lica di Canova. Quelle statue provenivano dal distrutto Palazzo Torlonia e grazie agli studi e alle campagne stampa di Stefano Susinno fu possibile ottenerle in comodato da Palazzo Corsini. Fu un’operazione di ricucitura storica tra le più significative degli ultimi decenni (poi divulgata al pubblico con la grandiosa mostra “Maestà di Roma”), malauguratamente smontata nel grottesco sparpagliamento dell’attuale allestimento. Il ripensamento della Gnam si collegava con l’idea di non farne più il luogo di aggiornamento continuo sui fatti dell’arte contemporanea ma un museo chiuso alla data della frattura insanabile che era avvenuta alla fine degli anni Sessanta (con l’ultima sala su Pino Pascali, morto nel 1968, al quale la Pinto da giovane aveva dedicato uno studio importante); l’arte successiva sarebbe dovuta andare in un Museo delle arti del XXI secolo che sarebbe poi diventato il MAXXI di Zaha Hadid.

La direzione della Gnam fu la chiusura di un cerchio. Sandra Pinto si era infatti formata con Argan, del quale si trovò a seguire le lezioni nel 1959 nel primo corso tenuto alla Sapienza in anni cruciali del suo percorso critico, quelli del sodalizio sempre più stretto con Palma Bucarelli, attivissima direttrice della Galleria. Fu proprio Argan, dopo la laurea nel 1962, a proporla come assistente a Bruno Zevi oltre a volerla come sua assistente volontaria (dal 1965 al 1969) e poi a farle vincere una borsa di studio per il perfezionamento svolgendo il suo tirocinio alla Gnam. Fu un’esperienza determinante, grazie all’incontro con i giovani funzionari Dario Durbé e Giorgio De Marchis, con la collaborazione al riordino delle sale, alla catalogazione delle opere, alle prime mostre e alla cura dei cataloghi. Né vanno dimenticate le coeve pubblicazioni su riviste di avanguardia come il “Marcatre” nel 1966-67 oppure “Metro” (rilanciata nel 1968 con la direzione di Argan, Gillo Dorfles e Bruno Alfieri; ed è commovente leggere che come indirizzo della redazione romana veniva indicata l’abitazione della Pinto). E proprio in un numero del “Marcatre” del 1970 troviamo la trascrizione di un dibattito tenuto a Firenze sul futuro della critica d’arte e tra gli agguerriti critici del tempo sbuca un breve intervento di Sandra Pinto, che lucidamente affermava: rispetto alle “due dimensioni verso cui si può orientare la critica” cioè la storicità e l’esteticità “al momento attuale mi sembra piuttosto che la critica dovrebbe orientarsi verso la storicità”. Fu una netta presa di posizione metodologica che avrebbe guidato tutta la sua futura attività scientifica. Un magistero teorico e pragmatico che l’ha resa punto di riferimento per molte generazioni di storici dell’arte e autrice di un libro non meno importante di quelli fatti di carta, un libro fatto di pensieri che diventano azioni e scelte che cambiano il corso della storia.

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