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Lia Tagliacozzo e la Shoah: i miei nonni capirono il male che arrivava? 

Un estratto dal libro “La generazione del deserto” su due famiglie ebraiche: parole chiare per replicare al vergognoso attacco online alla scrittrice e giornalista

Lia Tagliacozzo e la Shoah: i miei nonni capirono il male che arrivava? 
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13 Gennaio 2021 - 15.08


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Magari avete letto o sentito la notizia (clicca qui per leggerla): la scrittrice e giornalista Lia Tagliacozzo è stata assalita con una valanga di minacce e insulti antisemiti in un attacco online organizzato da neo nazi e fascisti durante la presentazione su Zoom del suo ultimo libro, “La generazione del deserto” (Manni editori, pp. 256, € 16,00).  L’incontro online era organizzato dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza in collaborazione con il Centro di Studi ebraici di Torino.

A chi reputa l’assalto una bravata ricordiamo che, come la Storia dimostra, alle parole violente spesso seguono le azioni violente. Il sottotitolo del libro è chiaro: «Storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia». Il libro ricompone «la storia di due famiglie ebraiche, una salvata dai “giusti” e l’altra condannata dagli “infami”, un racconto sull’ebraismo, sull’identità, sulla memoria», scrive l’editore, attraverso lunghe ricerche e uno scavo a tratti di un dolore difficile da sostenere. Come quando l’autrice figlia di due sopravvissuti alla Shoah racconta la cattura a Roma del nonno Arnaldo «visto vivo fino a novembre del 1944 nel campo di Auschwitz». Quell’uomo fu catturato per la delazione di qualcuno, un amico forse, un «infame», come Lia Tagliacozzo ricostruisce nel quarto capitolo e a pagina 133 dove riprende un biglietto di sua nonna: «“Giovedì 3 febbraio (1944, ndr) a via Salaria, presso negozio, verso le dieci e mezza, Pallatino per il tenente Carbonelli alla caserma Mussolini, li ha veduti portar via in macchina privata il venerdì verso le dieci di mattina. Tenente SS Scott che stava con Carbonelli. Lunedì erano a Regina Coeli”». 

A chi sogna di nuovo di rispedire ebrei, e chissà quanti altri, nei forni crematori (sono minacce ormai ricorrenti) si può rispondere in molti modi. Qui scegliamo di pubblicare un brano del notevole libro, su gentile concessione dell’editore, che guarda al passato e, molto, al nostro oggi. Lo stralcio è estratto dal quinto capitolo, “Storia di un giusto”. 

Lia Tagliacozzo: “Storia di un giusto” 

Credo che mio nonno abbia fatto parte di quella borghesia ebraica che ha sperato fino all’ultimo, e forse anche contro ogni evidenza, che fosse possibile attraversare la tempesta del fascismo, della guerra e dell’occupazione cercando di mimetizzarsi e sperando che fosse sufficiente comportarsi senza attirare l’attenzione. Quando, nel 1939, il fratello del nonno, lo zio Gualtiero, e la sua famiglia partirono per l’allora Palestina sotto mandato inglese, probabilmente il nonno sarebbe andato con loro ma la nonna Wanda non volle lasciare i genitori anziani. Mi sorprende sempre quando, nelle pieghe delle storie famigliari, emergono sentimenti semplici e ovvi che però condizionano decisioni fondamentali. Nel guardare a quel passato penso sempre che in tempi tragici ed eroici come quelli anche le scelte dovessero essere all’altezza delle circostanze. Perché rinunciare a partire? Perché non lasciare un paese che li stava progressivamente emarginando? Perché non pensare alle figlie e a garantire loro un futuro in un paese di uguali invece che restare a badare ai vecchi? 
Ma è un drammatico errore guardare indietro con il senno di poi. Per mia nonna era inimmaginabile quello che sarebbe successo e l’affetto che la legava ai genitori era più che sufficiente a motivare il desiderio di restargli accanto. 

D’altro canto chi potrebbe contestare tanto amore filiale? Forse se avesse saputo quello che sarebbe successo – la separazione dalle figlie e dal marito, la fuga, la difficoltà di curarsi, l’esilio – forse, avrebbe fatto scelte diverse. Ma non poteva saperlo. Nessuno poteva. E lei desiderò, comprensibilmente, rimanere accanto ai suoi genitori. Fu così che la mia mamma restò in Italia. D’altronde che stesse per succedere l’inimmaginabile è testimoniato con evidenza dal fatto che nell’estate del 1939 la famiglia dello zio tornò da Tel Aviv in Italia per passare le vacanze in montagna. Le tensioni internazionali erano già fortissime ma questo non li fermò: si imbarcarono nuovamente a Trieste per tornare in Palestina alla fine dell’estate del 1939 quando la Germania aveva già invaso la Polonia e la guerra era già iniziata. Portarono con loro anche i genitori del nonno: la nonna Gilda Contini e il nonno Carlo. Tornare in Italia fu una follia ma loro la fecero lo stesso. Anche allora la vita proseguiva senza sapere come sarebbe andata a finire.
Questa consapevolezza emerge ogni tanto nella vita della generazione del deserto: cosa sta accadendo ora di cui non ci rendiamo conto? Quale realtà è pronta a germogliare tra le nostre solite abitudini? Quale mostro ci aspetta dietro l’angolo di una quotidianità che rischia di essere serena solo all’apparenza? Se il pensiero si affaccia rende inquieti i giorni e le notti e rende ansiose le occhiate lanciate ai figli di soppiatto quando ci illudiamo che non se ne accorgano. Lo sguardo alle vicende internazionali pone spesso interrogativi analoghi: qualcuno riesce a dare corpo all’angoscia e alla ribellione con atti di sostegno e impegno concreti, altri restano paralizzati, incapaci di trasformare la paura per gli altri in un gesto di solidarietà: essere stati salvati non rende in automatico eroi, rende solo esseri umani vivi. 

È per tutto questo che vorrei conoscere lo scarto che fece di Giuseppe Dani un amico fidato ed insostituibile. Perché sapere cosa rese allora un uomo retto un giusto aiuta a prendere le misure degli uomini e delle donne nel presente: c’era allora qualcosa che il nonno e la nonna hanno capito prima che il pericolo arrivasse? Qualche segnale che consente anche oggi di riconoscere i buoni dai cattivi? Temo che si tratti di domande ingenue: siamo – quasi – tutti buoni finché non arrivano la fame e la guerra.

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