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Perché il fascismo giudicava il jazz immorale ma non poté reprimerlo

Uno studio di Camilla Poesio illustra come il regime osteggiasse per ragioni razziali e "morali" la musica afroamericana, che allora era sopratutto da ballo, ma fu costretto a un compromesso

Perché il fascismo giudicava il jazz immorale ma non poté reprimerlo
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10 Aprile 2019 - 16.36


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di Marco Buttafuoco

Quello del rapporto fra jazz e fascismo non è certo un tema nuovissimo nel dibattito fra gli appassionati e fra gli studiosi della musica afro-americana. Già da tempo chi aveva affrontato in termini musicologici o memorialistici questo tema aveva evidenziato una sostanziale ambiguità nel comportamento del regime, un’oscillazione fra rifiuto totale e accettazione quasi rassegnata. Nella mentalità comune, in quella nefasta vulgata dell’” ha fatto anche cose buone”, questa esitazione veniva fatta risalire a una sostanziale paciosità del regime; in fin dei conti, in questa visione edulcorata, Mussolini tollerava il jazz perché i suoi figli ne erano innamorati.

Per il fascismo era un’arte bastarda e immorale
Questo volumetto di Camilla Poesio (Tutto è ritmo, tutto è swing. Il fascismo e la società italiana, Le Monnier 2018, pp. 184, € 14,00, ebook € 11,99), costituisce un interessante tentativo di approfondire, su basi non musicologiche ma esclusivamente storiografiche, questo argomento. Il problema secondo la giovane studiosa non è solo quello di ricostruire l’atteggiamento ideologico del fascismo rispetto al jazz, ma anche quello di capire quanto questa musica fosse presente e radicata nel gusto degli italiani, come si diffuse e che ruolo ebbe nel costume dell’epoca. In altre parole il regime, secondo l’autrice, pur osteggiando quest’arte come razzialmente impura e bastarda, antinazionale, minacciosa per la moralità delle giovani generazioni, non poteva negare né impedire la sua diffusione.

Il jazz era divertimento e gioia di vivere
Il jazz, amatissimo dai giovani, era divertimento e gioia di vivere (allora era anche soprattutto una musica da ballo) in una società devastata dalla memoria della Grande Guerra; per i musicisti era un nuovo orizzonte di esperienze, di possibilità espressive; per la radio nascente e per l’industria discografica era un elemento imprescindibile d’intervento sul mercato dell’ascolto. In estrema sintesi il compromesso fu trovato in una sorta di accordo fra il Minculpop e l’Eiar. Il jazz permesso o vagheggiato fu un jazz nazionale, legato più al gusto melodico che non a quello ritmico: la fisarmonica italicissima doveva rimpiazzare il sax e i testi non potevano che essere italiani. Ma anche nel 1942, in piena guerra, quando la censura era totale e assoluta, l’Eiar trasmetteva classici come Saint Lois Blues nella pittoresca traduzione de Le tristezze di San Luigi.

Giovani innamorati della “musica sincopata”
I figli di Mussolini non hanno avuto alcun un ruolo in questa storia; l’Italia pullulava di tanti giovani come loro innamorati della “musica sincopata”. Una musica che fu diffusa in Italia, ancor prima che dalla radio, dai musicisti che suonavano sui transatlantici e che sentivano negli Usa quei ritmi e quelle armonie tanto innovative (Natalino Otto è il più celebre fra loro) ma anche dai numerosissimi americani che affollavano località turistiche come Venezia e Viareggio. Cole Porter, durante il suo lungo soggiorno sulla laguna (punteggiato di feste sontuose a base di sesso, droga e jazz) organizzarono addirittura un battello che faceva sentire un’orchestrina swing lungo i canali.

La repressione nazista e quella staliniana
La storia dei rapporti fra fascismo e jazz è quindi un aspetto della mai risolta contraddizione, nella cultura mussoliniana, fra apertura alla modernità e il peggior conservatorismo (La Poesio mette in rilievo però anche l’assoluta ostilità della chiesa verso la musica e i balli afro americani). In ogni caso, come ha rilevato Franco Bergoglio in una puntuale recensione a questo libro, il jazz non ebbe difficoltà solo in Italia. La repressione nella Germania nazista e nell’Unione Sovietica staliniana, furono ben più pesanti e tragiche, anche se non riuscirono mai a svellere del tutto le radici di quest’arte. Un buon libro, adatto anche, per la sua scrittura brillante e le tante annotazioni sul costume dell’epoca (belle le pagine dedicate alla moda) a un pubblico di non specialisti o semplici curiosi dell’argomento.

Camilla Poesio (Tutto è ritmo, tutto è swing. Il fascismo e la società italiana, Le Monnier 2018, pp. 184, € 14,00, ebook € 11,99)

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