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Staino: «Macaluso sapeva che non si fa una rivoluzione con chi ammazza»

Nel suo libro sul Pci il disegnatore scrive del valore politico e umano del dirigente appena scomparso. Ne proponiamo uno stralcio: «La storia illuminata del leader comunista italiano» 

Staino: «Macaluso sapeva che non si fa una rivoluzione con chi ammazza»
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19 Gennaio 2021 - 15.46


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«Macaluso è stato il miglior direttore dell’Unità con cui ho avuto a che fare. Perché coltivava il dubbio. Su di lui e sulla posizione dei miglioristi la mia autocritica è totale. Penso che la loro posizione fosse l’unica possibile per ricucire la frattura nata nel 1921 con il Psi e far nascere in Italia un partito laburista». L’autocritica con il riferimento a Emanuele Macaluso ha la voce di Sergio Staino, il vignettista che nel 1986 portò il suo “Bobo” nel quotidiano del Partito comunista italiano e che manifestava la sua ammirazione per il dirigente del Pci in una lunga intervista sull’inserto “Tuttolibri” della Stampa del 9 gennaio scorso. L’occasione era un libro di cui abbiamo pubblicato un brano “Storia sentimentale del P.C.I. (anche i comunisti avevano un cuore)” (Piemme, da Mondadori Libri, pp. 169, € 17.50, anche in ebook, clicca qui per la notizia).
Con la scomparsa dell’uomo politico (clicca qui per la notizia) ne riprendiamo un altro stralcio, su gentile concessione dell’autore, perché nell’appendice finale sui “comunisti più amati” Staino parla proprio di Macaluso e soprattutto lo inserisce in un quadro storico e delinea, allo stesso momento, come la dimensione umana sia una componente essenziale tanto nell’attività politica come, e lo si comprende da queste pagine, nell’esercizio e nella difesa della democrazia. Per inciso: nell’intervista il disegnatore racconta che, alla proposta di Macaluso di collaborare con l’Unità, era convinto che non avrebbe «mai avuto il coraggio di pubblicare le mie vignette. E per dimostrarglielo ne mandai una decina una più indigesta dell’altra per l’ortodossia del Pci». Invece «sorprendendomi lui disse di sì. Accettò di avere sul giornale qualcuno che smontava la chiesa del Pci pezzo per pezzo. Perché, in fondo, Bobo metteva in chiaro i dubbi di molti iscritti al partito».

Sergio Staino: con Macaluso nel 1921 non avremmo fatto la scissione dai socialisti

Dal punto di vista della stima e del legame personale, non posso che riferirmi ad Emanuele Macaluso, proprio quel direttore che per primo mi volle a «l’Unità».
Lo conobbi di persona nei primi anni Sessanta a Venezia dove mi ero spostato per continuare gli studi di architettura. Lui teneva una conferenza alla sala degli specchi in una città deserta e buia dove, al ritorno a casa rischiai anche un pestaggio da parte di una squadraccia fascista che faceva la ronda nella città. In principio Macaluso non mi entusiasmò per nulla e ne ricavai una immagine di uno scuro e mediocre funzionario di partito. Ci sono voluti anni per farmi scoprire in lui un vero dirigente di grande intelligenza e capacità politica. Non si può non volergli bene, è la storia illuminata del leader comunista italiano. Di origine poverissima, era nato in Sicilia, ha fatto il sindacalista dei braccianti, ha studiato tantissimo da solo e non è mai stato conformista o tendente a forzature opportunistiche per conquistare la leadership del partito.

Io sono sicuro che se avessimo avuto lui come punto di riferimento politico nel 1921 a Livorno non avremmo fatto la scissione. Ma forse esagero. Rimane il fatto, però, che a tanti anni di distanza mi capita spesso di pensare come sarebbe stato utile una grande famiglia socialista unita contro il neonato fascismo.
Gli scissionisti però erano comprensibilmente affascinati dalla presa del Palazzo d’Inverno e da questo Lenin che tagliava i tempi della storia e che sicuramente avrebbe accelerato l’arrivo degli sfruttati al potere. Chi poteva pensare in quei giorni che una strada così necessariamente ed esplicitamente militarista, portava dentro sé il germe della degenerazione. Una volta preso il potere con le armi bisognava continuare a mantenerlo sempre con le armi e questo si chiamò dittatura del proletariato, un meccanismo tragico che servì non solo a reprimere le insurrezioni controrivoluzionarie ma anche, se non soprattutto, a eliminare i dissensi interni alla direzione comunista.
Come è successo a me e a tanti giovani come me negli anni Cinquanta quando mi avvicinai alla idea comunista, così deve esser successo ai giovani del 1921, mio nonno compreso. Ai loro occhi, e in seguito ai nostri, quei dirigenti apparivano come persone meravigliose: intelligenti, buoni, generosi, pronti a sacrificarsi per la causa comune. Oggi sono sicuro che questi valori che ho elencato erano un ostacolo per mantenere il potere nelle proprie mani e che quindi, al contrario, le personalità più fredde, ciniche e spietate erano avvantaggiate.
Eppure ci raccontavano anche che Lenin dal palco di teatro da cui vide una volta La Traviata, pianse amare lacrime sulle sorti di Violetta Valerie. Probabilmente si guardò bene dal trasbordare questo umanissimo sentimento all’interno della dinamica governativa: sarebbe stato accusato di essere “buonista” e subito fucilato.

La mia conclusione, oggi, è molto semplice: non si può fare una rivoluzione con persone pronte ad ammazzare il prossimo pur di far vincere la propria idea.
Sicuramente Macaluso e i suoi compagni miglioristi avevano compreso più di altri questa lezione e, con loro, anche il Togliatti della “svolta di Salerno”.
La nostra fortuna è stata che la maggioranza dei dirigenti del Partito comunista dal dopoguerra in poi aveva imparato la lezione e mai persero di vista la democrazia liberale, la rappresentanza politica e quei saldi principi della Costituzione
che avevano contribuito a scrivere.

Piemme da Mondadori Libri S.p.A.
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano

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