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Un’Africa tradita: un brano del Nobel Wole Soyinka

Una storia che parte da una scultura colossale e assurda a Dakar: pubblichiamo un estratto dal volume “Al di là dell’estetica” dello scrittore nigeriano

Un’Africa tradita: un brano del Nobel Wole Soyinka
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11 Ottobre 2020 - 18.08


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A Dakar, capitale del Senegal, si alza un gigantesco “Monumento del Rinascimento africano” con un uomo ipermuscoloso che sul braccio sinistro tiene sollevato un bambino il quale indica con la mano sinistra un punto verso l’orizzonte, si suppone l’avvenire. Verso quell’orizzonte certo radioso guarda l’uomo e guarda la donna dietro di lui. È un monumento che già dalle foto sconcerta: ha tutti i crismi della tronfia retorica delle sculture d’epoca fascista o, in parallelo, della retorica inneggiante al sol dell’avvenire del Realismo socialista nell’Unione Sovietica e reclamato da Stalin agli artisti (e chi trasgrediva conosceva il gulag e/o la tomba). Quel monumento non ha un bel niente di «africano» pur se commissionato dal capo di Stato senegalese, constata sconcertato il Nobel per la letteratura del 1986 Wole Soyinka e attivista per i diritti umani nel brano di apertura di un suo saggio che rappresenta una riflessione acuta e profonda sulla cultura visiva e sulla cultura in generale del suo continente d’origine e in relazione con la propria storia e con il colonialismo che, a dispetto di tutto, di fatto non è finito.

Il libro si intitola “Al di là dell’estetica. Uso, abuso e dissonanze nelle tradizioni artistiche africane” (Jaca Book, 204 pagine, 50 euro traduzione di Cristiano Screm) e offre davvero tanti spunti. In queste pagine Wole Soyinka, poeta immaginifico e vasto, saggista di una chiarezza esemplare, parte dalla sua esperienza di collezionista per riflettere sull’arte africana, sulle implicazioni politiche dell’esporla oggi, e dove esporla, per criticare chi vuole cancellare le tradizioni africane d’arte. Ne pubblichiamo le pagine iniziali su concessione dell’editore, Jaca Book, l’editore che lo ha tradotto da noi fin dagli anni ’70, vale a dire prima che Soyinka fosse conosciuto al pubblico italiano come è oggi. Nato nel 1934 in Nigeria, l’autore scrive poesie, drammi, saggi e articoli in inglese.
Tra i suoi libri si possono citare gli ultimi, tutti editi da Jaca Book: “L’uomo è morto? Smurare la libertà” (2018, 102 pagine, 15 euro), che comprende il suo discorso al conferimento del Nobel; la raccolta di poesie “Ode laica per Chibok e Leah” (2019, 75 pagine, 15 euro), sulle ragazze nigeriane rapite da Boko Haram e altri testi; le raccolte di saggi su potere e libertà “Il lungo cammino verso Mandelaland” (2019, 176 pagine, 18 euro); il saggio “Il Fantasma di Cassandra” (2020, 192 pagine, 20 euro).

Wole Soyinka: quel monumento colossale non può essere africano

Due storie potranno servire a introdurre questi saggi e ad accompagnarci nei territori delle muse creative africane. La prima inizia con una visita a Dakar, Senegal, quasi un anno dopo il terremoto del 12 gennaio 2010 che seminò il terrore a Haiti. Durante una conferenza all’Università di Lagos, nel maggio 2012, ritenni opportuno fare riferimento a quella visita e allo storico gesto del presidente senegalese Abdoulaye Wade, che aveva offerto terre e aiuti agli haitiani colpiti dal sisma e intenzionati a iniziare una nuova vita nella loro patria originaria. Alcuni lo fecero, e fu loro tributata un’accoglienza pubblica a Dakar. In quella conferenza, intitolata Monumenti arrugginiti e Rinascimento africano, dichiarai:

Che altro, se non quella stessa sensibilità storica, ha indotto [il presidente Wade] a scegliere un punto del promontorio del Senegal, l’estremità occidentale del continente, come luogo simbolico in cui accogliere questi antichi dispersi? «Questo fu l’ultimo luogo che i vostri antenati videro mentre venivano trasportati via sulle navi schiaviste» ha dichiarato Wade. «È perfettamente appropriato che vi accogliamo qui al vostro ritorno.»

Consentitemi di sovrapporre ulteriormente la geografia alla storia ricordando che la cerimonia di benvenuto ebbe luogo all’ombra della gigantesca statua che Abdoulaye Wade aveva eretto in quel tragico «Punto di Partenza», in una località nota come Collines des Mamelles. L’aveva battezzata Monumento del Rinascimento Africano. Vi consiglio di visitarla, se capitate da quelle parti – è una mole sbalorditiva di marmo e terriccio. Per farvi un’idea delle sue dimensioni, pensate che un ascensore in grado di trasportare tre persone adulte sale attraverso il collo della figura maschile del gruppo statuario – una triade composta da Madre, Padre e Figlio. Permettetemi una deviazione – non una digressione, ma soltanto una breve deviazione di pochi istanti, atta a descrivere l’impatto e l’importanza di questa statua.

Si tratta di una struttura decisamente colossale – l’apogeo, il non plus ultra della monumentalità. Notevole è anche il fatto che non un solo aspetto della sua configurazione scultorea presenti la benché minima somiglianza con qualcosa di africano – di sicuro non la concezione, lo stile, le forme e nemmeno la gestualità. Le reazioni estetiche, va riconosciuto, sono perlopiù soggettive, ma anche la soggettività presuppone un bagaglio di incontri pregressi, o un’immersione nella tradizione, che stimola confronti istantanei. Mentre mi confrontavo con quel monumento – e anzi penetravo al suo interno, grazie al privilegio accordatomi di una visita personale guidata – la mia mente è corsa subito alle opere della scultrice shona Colleen Madamombe, e mi sono domandato chi diavolo fossero i consulenti del presidente in materia artistica, e se avessero condotto una ricerca anche soltanto superficiale all’interno del continente africano, prima di commissionare e/o adottare l’estetica dell’arte pubblica neofascista mascherata da realismo proletario. L’arte è parte integrante del contesto sociale. Laddove il tema coinvolge un soggetto storicamente sensibile come il Rinascimento, il «Rinascimento africano» e via dicendo, un leader che comprenda lo spirito della rinascita umanista e dichiari di esserne permeato, ma che sia rimasto indietro nella conoscenza del proprio retaggio figurativo e dei più recenti sviluppi contemporanei, dovrebbe se non altro cominciare sondando il contesto locale. Le sue buone intenzioni non giustificano l’imposizione di escrescenze palesemente straniere sul suo paesaggio nazionale, men che meno in un luogo segnato da un simile pathos storico. In realtà, come ho appreso in seguito, il monumento era stato costruito da un consorzio nordcoreano.
Ma d’altronde, vi è davvero motivo di lagnarsi? Anche il quartier generale del nuovo volto dell’Africa – l’Unione Africana – è stato edificato da partner stranieri, e inaugurato dal capo di Stato cinese! Nemmeno un concorso aperto agli architetti africani locali, o agli esponenti della diaspora? Nemmeno un gruppo scelto di professionisti selezionati dall’Unione Africana per affidare il progetto a uno scultore africano?

Facciamo ora un rapido salto in avanti di sei anni e mezzo, sino al 22 dicembre 2018. Capitato nuovamente nel Senegal, ho soddisfatto il desiderio a lungo accarezzato di visitare lo studiogalleria dello scultore Ousmane Sow, oggi scomparso – un artista del quale indicherei con sicurezza in Auguste Rodin lo spirito europeo più affine. Mentre il curatore e il suo staff mi facevano da guida all’interno dello studio, il mio sguardo si è imbattuto in un gruppo di tre figure – si trattava chiaramente di uno studio, le cui dimensioni erano minuscole rispetto a quelle delle opere più familiari di Ousmane Sow, in grande formato. Involontariamente mi sono lasciato sfuggire un’esclamazione che non ripeterò. Una volta riavutomi, ho chiesto: «Ma dov’era nascosto? Dov’era, quando è stato eretto quel “coso” sulle Mamelles?».
È seguito un balbettio di voci concitate, accompagnato da espressioni facciali angosciate. Alla fine è stato il curatore ad assumersi il compito di lasciare agli atti la seguente dichiarazione: «Signor Soyinka, questo era il progetto originale. In realtà, Ousmane Sow era stato scelto per presentare una proposta, e l’ha fatto – il modello è questo. Tuttavia, il Presidente lo ha rifiutato. Ha preferito quello nordcoreano che oggi sorge alle Mamelles».

Su gentile concessione di Jaca Book

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