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Un saggio di Forti: contro le fake news serve consapevolezza, non criminalizzare

Le false notizie condivise, follower fasulli e video manipolati favoriscono derive politiche. Un libro spiega come mai le sanzioni penali non avrebbero effetti positivi

Un saggio di Forti: contro le fake news serve consapevolezza, non criminalizzare
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28 Maggio 2020 - 11.19


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di Antonio Salvati

Anche durante l’emergenza coronavirus hanno continuato ad imperversare notizie false su precauzioni e cure e teorie complottiste nel web, anche se in quantità decisamente minore rispetto al passato, a detta di alcuni esperti. Com’è noto le fake news vengono condivise ‘a cascata’ e diffuse attraverso i social media. Un fenomeno inquietante, soprattutto in questo momento in cui tutti siamo chiamati a comportarci responsabilmente. Oggi come ieri necessitiamo di un’informazione seria e corretta.

Da più parti comprensibilmente si levano gli scudi a favore dell’incriminazione di notizie false, di reti di follower fasulli, video fabbricati o manipolati. In altri termini, è auspicabile l’introduzione di norme incriminatrici ad hoc? Se ne parla nell’interessante volume curato da Gabrio Forti, Le regole e la vita. Del buon uso di una crisi, tra letteratura e diritto (Vita e Pensiero, Milano, pp. 145; il volume è scaricabile gratuitamente nei diversi formati digitali dal sito della casa editrice e dai principali store online).

Assistiamo quotidianamente ad una sorta di moto circolare, che collega comunicazione massmediatica, pubblica opinione e politica e di cui non sempre è agevole rintracciare l’agente di innesco. Se la presenza degli old media (in particolare, radio e televisione) è ancora molto significativa con riferimento alla realtà italiana, l’avvento dei new media rischia di enfatizzare la condizione di post-verità: sia perché la quantità notevole di informazioni accessibili sul web, spesso di scarsa qualità (quando non totalmente false) e riversate in rete, crea disinformazione; sia perché l’interattività dei nuovi mezzi di comunicazione, favorisce derive plebiscitarie, secondo un modello caricaturale di democrazia diretta, ove si annulla completamente l’argomentazione e il confronto pubblico. Con riferimento ai temi della giustizia e della sicurezza, questo percorso frequentemente porta all’adozione di decisioni politiche suscettibili di impattare sul comparto penalistico dell’ordinamento giuridico.

Molteplici volte nel trattare il “tema criminalità”, così come altri argomenti riconducibili al “mercato della paura”, la selezione e la rappresentazione dei fatti veicolata dai mass media e soprattutto dei social ha condizionato la percezione dei rischi da parte della collettività, a causa dell’emotività collettiva e da processi di percezione dei rischi non razionali, perché influenzati da logiche diverse da quella della effettiva esistenza del rischio stesso. Lo stesso dibattito sulle regolarizzazioni ha seguito uno scenario assimilabile ad un contesto dominato da post-verità, intesa come irrilevanza della verità. Anche in quest’occasione le idee espresse da alcuni politici (di orientamento sovranista) hanno teso ad orientare i propri contenuti sulla scorta delle preferenze di un certo pubblico, quali emerse da vere e proprie «indagini sul “mercato” elettorale»; in questo modo le idee non sono dunque proposte agli elettori, ma in un certo senso (e in misura sempre crescente) predefinite dagli elettori stessi (o meglio da una parte di essi).

Tornando alla domanda sull’opportunità dell’introduzione di norme incriminatrici ad hoc sulle fake news, occorre ricordare che attualmente, nel nostro ordinamento la diffusione di notizie false è punita solo quando è tale da turbare l’ordine pubblico o da procurare allarme presso la pubblica autorità, ai sensi degli artt. 656 e 658 del codice penale, Attualmente, nel nostro ordinamento la diffusione di notizie false è punita solo quando è tale da turbare l’ordine pubblico o da procurare allarme presso la pubblica autorità, ai sensi degli artt. 656 e 658 del codice penale, «fattispecie contravvenzionali – osserva giustamente Marta Lamanuzzi – ritenute dai più inadeguate a contrastare la disinformazione, alla luce delle caratteristiche, delle dimensioni e delle potenzialità lesive che ha assunto nell’attuale contesto social-mediatico».

Oggettivamente non è facile per il legislatore dare una definizione di ‘notizia falsa’, se si considera che il fenomeno della disinformazione non è dovuto solo a notizie propriamente o completamente false o inventate, ma anche a notizie confezionate mescolando fatti veri e falsi od omettendo dati rilevanti, accompagnati da video fabbricati o manipolati. La disinformazione è infatti un problema complesso e che affonda le sue radici nelle caratteriste del web. La rete – spiega Lamanuzzi è un «ecosistema infodemico, ossia un ecosistema che è per sua natura disinformativo, in cui è difficile orientarsi, distinguere il vero dal falso, poiché vi circola una quantità enorme di informazioni e la verifica delle fonti spesso non è semplice».

In tal senso, la criminalizzazione delle fake news rischierebbe di rappresentare l’ennesima espressione di quella che Gabrio Forti definisce una sanzionorrea, ossia un ricorso alla sanzione penale finalizzato per lo più a sedare populisticamente ansie sociali, anziché a fornire risposte efficaci a problemi reali. Se al diritto penale va riconosciuto un importante ruolo di orientamento culturale delle condotte, un suo utilizzo eccessivo e sproporzionato finirebbe per indebolirlo nei casi nei quali è davvero necessario e per diluirne di molto la stessa forza ‘morale’. Infatti, essendo difficile elaborare fattispecie incriminatrici – che a loro volta dovrebbero essere in linea con il principio costituzionale di legalità e precisione, con il principio di determinatezza, e con il principio di necessaria offensività – è abbastanza improbabile che la sanzione penale possa efficacemente contrastare il fenomeno della disinformazione in rete. Da considerare, infine, che in base alla filosofia dell’extrema ratio dell’intervento penale, quest’ultimo potrebbe essere legittimamente ammesso solo qualora la sua efficacia non sia sostituibile da strumenti di controllo extrapenali.

In questa prospettiva, la soluzione al problema della disinformazione deve essere ricercata soprattutto sul piano culturale, nella cosiddetta media literacy, ossia nell’innalzamento del livello di consapevolezza degli utenti. Compito decisamente immane, ma esaltante. Sfida che deve essere raccolta innanzitutto dalla scuola.

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