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Il capitalismo è avverso al benessere collettivo: Assisi cerca un’altra via

Rinviato a novembre il meeting con duemila giovani ed esperti “The Economy of Francesco”. Per l’economista Luigino Bruni si adora il mercato e i poveri diventano “colpevoli”

Il capitalismo è avverso al benessere collettivo: Assisi cerca un’altra via
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6 Marzo 2020 - 10.00


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di Antonio Salvati

Papa Francesco ha denunciato più volte – soprattutto nell’Evangelii Gaudium e nella Laudato si’ – lo stato patologico di buona parte dell’economia mondiale. Ha invitato, inoltre, a individuare un modello economico nuovo per affrontare efficacemente le sfide dell’economia, anche a partire dal pensiero e dall’agire economico dei giovani. È la sfida che sta alla base del meeting “The Economy of Francesco. I giovani, un patto, il futuro”, incontro internazionale tra giovani studiosi ed operatori dell’economia, convocati dal Sacro Convento di Assisi inizialmente dal 26 al 27 marzo, da Papa Francesco, con la partecipazione di circa duemila giovani provenienti da 115 Paesi, ma è notizia di pochi giorni fa che per favorire il migliore svolgimento dell’iniziativa, vista la difficoltà oggettiva che in questo momento tanti stanno avendo negli spostamenti a livello internazionale e nazionale, a causa del coronavirus, il Santo Padre, di intesa con il comitato, ha fissato dal 19 al 21 novembre 2020 la data dell’evento.
È nota la priorità del pontefice per i giovani e la sua sollecitudine per un’altra economia. Molti economisti e imprenditori, sensibili allo spirito dell’Oikonomia di Francesco, rifletteranno sulle attuali prassi economiche nel mondo, dando rilievo al pensiero dei giovani sulle questioni ambientali ed economiche che è molto più avanti del pensiero degli adulti e che va preso molto sul serio.

Il sito del meeting di Assisi

La capacità di adattamento del capitalismo
Il Novecento ci ha lasciato in eredità un ricco e duro dibattito sul capitalismo. Non è stato soltanto un dibattito intellettuale o accademico. È stato – direbbe l’economista Luigino Bruni, direttore scientifico dell’evento di Assisi – sangue e carne, vita e morte, paradiso e inferno. Malgrado i critici del capitalismo siano sempre stati molti, il capitalismo ha mostrato una sorprendente capacità di adattamento al mutare delle condizioni di contesto: «ha saputo cambiare forme – spiega Bruni – assorbendo le istanze dei suoi critici, e come tutti i grandi imperi è stato fatto più grande e forte dai nemici inglobati nelle proprie truppe e nella propria cultura».

Il capitalismo infelice secondo Bruni
Bruni in una recente pubblicazione (Capitalismo infelice. Vita umana e religione del prodotto, Giunti 2018, pp. 176, € 16) ha analizzato le dimensioni del nuovo spirito dell’economia del nostro tempo. Un’economia ancora denominata capitalismo, in assenza di una parola sintetica più efficace. Evidentemente tra ciò che chiamiamo oggi capitalismo e quello che abbiamo conosciuto nei due secoli precedenti, ci sono molte differenze (vedi ad esempio la finanza e la rivoluzione del web), tanto da rendere complicato l’uso della stessa parola. Una riflessione su ciò che non si vede (gli spiriti sono invisibili), che il sistema non ci fa vedere, ma di cui sperimentiamo le conseguenze in termini di gioia di vivere, il cui calo sembra essere una nota dominante del nostro capitalismo. Il capitalismo non ha mantenuto le sue promesse di progresso e benessere. Lo stato di salute dei beni comuni, dei beni relazionali e della Terra ci dicono ormai chiaramente e concordemente che esiste una incompatibilità radicale tra la loro salvaguardia e la logica capitalistica.

Bruni: l’idolatria del prodotto-bene di consumo
Per Bruni il «capitalismo del XXI secolo sta risacralizzando il mondo» sotto forma di un’idolatria del prodotto-bene di consumo. Un sacro diverso da quello di tipo religioso. Il “sacro” del mercato è una sorta di idolatria più che sacralità. Per capire ciò che sta accadendo oggi, nel nostro mondo di mercato, bisogna conoscere più l’antropologia delle religioni, del sacro, che non la teoria economica. «Il mercato è soprattutto un fenomeno che si capisce e si comprende, se lo leggiamo da questa prospettiva di religione alternativa a quelle tradizionali; perché propone i suoi culti, i suoi dogmi, i suoi sacerdoti, la sua vita eterna che è il consumo perfetto». Una visione che, come tutte le religioni, ha i suoi dogmi. Il principale si chiama meritocrazia.

«Con la meritocrazia si legittima la diseguaglianza»
«Con la meritocrazia, ad esempio, si legittima la diseguaglianza, perché i talenti non sono interpretati come dono ma come merito individuale. Un dogma da cui deriva la sempre più pervasiva idea che i poveri sono demeritevoli e quindi colpevoli, e in quanto tali non abbiamo nessun obbligo morale di soccorrerli – al massimo possiamo pagare qualche Ong per occuparsene in modo che non ci diano troppo fastidio». A fronte di un’economia sempre più incentrata su incentivi, motivazioni estrinseche che puntano ad una forte omologazione e standardizzazione dei comportamenti, che così diventano incapaci di creatività (che tutti, a parole, vorrebbero), Bruni propone il rafforzamento delle motivazioni intrinseche, «quelle più potenti e quindi le più destabilizzanti per le organizzazioni. Quando siamo mossi “da dentro”, ci sganciamo dal calcolo costi-benefici, e diventiamo capaci di fare cose solo per la felicità intrinseca dell’azione. Non avremmo ricerca scientifica, poesia, molta arte, spiritualità vera, senza motivazioni intrinseche, come non avremmo molte imprese, comunità e organizzazioni che nascono dalle passioni e dagli ideali dei fondatori, e vivono perché e fino a quando qualcuno continua a lavorare non solo per denaro. Tutta la vera creatività ha un bisogno essenziale di motivazioni intrinseche».

Infatti, quando attiviamo le nostre passioni, gli ideali, il nostro spirito, accade che i nostri comportamenti sfuggano al controllo delle organizzazioni. Le nostre azioni diventano imprevedibili perché libere, e quindi mettono in crisi i protocolli e le job description. Soprattutto mettono in crisi «il management che, per compito e natura, deve rendere controllabile e prevedibile il comportamento organizzativo. Per poter gestire molte persone diverse e orientarle tutte verso gli obiettivi semplici dell’impresa, c’è bisogno di operare una forte omologazione e standardizzazione dei comportamenti, che così diventano incapaci di creatività (che tutti, a parole, vorrebbero).

Si colpevolizzano i poveri
Le motivazioni intrinseche sono, infatti, quelle più potenti e quindi le più destabilizzanti per le organizzazioni. Quando siamo mossi “da dentro”, ci sganciamo dal calcolo costi-benefici, e diventiamo capaci di fare cose solo per la felicità intrinseca dell’azione. Non avremmo ricerca scientifica, poesia, molta arte, spiritualità vera, senza motivazioni intrinseche, come non avremmo molte imprese, comunità e organizzazioni che nascono dalle passioni e dagli ideali dei fondatori, e vivono perché e fino a quando qualcuno continua a lavorare non solo per denaro. Tutta la vera creatività ha un bisogno essenziale di motivazioni intrinseche». Non capiamo allora l’aumento delle diseguaglianze nel nostro tempo se non prendiamo molto sul serio il forte aumento della teologia meritocratica del capitalismo. E non capiamo la crescente colpevolizzazione dei poveri, sempre più considerati non come sventurati ma come demeritevoli, se non consideriamo l’avanzare indisturbato della logica meritocratica. Se, infatti, interpretiamo i talenti ricevuti (dalla vita o dai genitori) come merito, il passo di considerare immeritevoli e colpevoli coloro che quei talenti non li hanno, diventa molto, troppo, breve.

Assisi centro di un pensiero economico diverso
Assisi è destinata a diventare una capitale di un pensiero economico diverso. Il cambiamento climatico è indiscutibile. Politiche economiche più rispettose dell’ambiente sono irrimandabili. E poi ci sono i grandi temi dell’Africa e dell’Asia. Non si può continuare a esultare perché l’America cresce al 3% vendendo armi e petrolio. E non si può non domandarsi perché questa economia cresce e altre economie, invece, sono affamate. La dimensione della ingiustizia globale non è rinviabile ulteriormente.

Ripartendo dal lavoro. Occorre smettere di vedere tutti i lavoratori come degli imboscati, pigri e fannulloni. Vanno visti in tutta la loro complessità umana, non solo controllati, in rapporti basati sulla sfiducia reciproca che non fa altro che produrre lavoratori sempre più simili alle teorie manageriali che li gestiscono Il mercato di domani avrà un bisogno vitale di «persone tutte intere, fuori e dentro le imprese, che coltivino e attivino anche quelle dimensioni fondamentali dell’umano che da millenni chiamiamo dono, reciprocità, interiorità, che rendono la vita degna di essere vissuta, a lavoro e a casa». Le imprese hanno un bisogno di manager umanisti e meno tecnici, di persone esperte in umanità, capaci di ascolto, di cura, di accompagnare i tanti travagli delle organizzazioni. Ma le scuole di business non devono concentrarsi esclusivamente concentrate sugli strumenti e sulle tecniche. Dovrebbero far studiare ai propri allievi filosofia, spiritualità, svolgendo le lezioni dentro le fabbriche.

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