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Vittoria Franco: così Hannah Arendt rispose al male assoluto di Auschwitz

Il totalitarismo del '900 fu un inedito nella storia. Pubblichiamo una sintesi dalla relazione sull'autrice della "banalità del male" che la filosofa ed ex senatrice tiene a Firenze

Vittoria Franco: così Hannah Arendt rispose al male assoluto di Auschwitz
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6 Febbraio 2019 - 11.38


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Vittoria Franco, politica, già senatrice nei Democratici di Sinistra e poi nel Pd dal 2001 al 2013, filosofa, ricercatrice di filosofia alla Scuola Normale di Pisa, giovedì 7 febbraio alle 17.30 alla Biblioteca delle Oblate di Firenze, in via dell’Oriolo, 3, tiene una conversazione su Hanna Arendt dal titolo “Dalle origini del totalitarismo alla Banalità del male”. L’appuntamento fa parte del ciclo organizzato dall’Istituto Gramsci Toscano “La politica può essere bella” e pubblichiamo di seguito una sintesi della relazione su Hannah Arendt (1906-1975).
Allieva e per un certo periodo compagna del filosofo tedesco Martin Heidegger, Hanna Arendt è stata una politologa, filosofa e storica tedesca naturalizzata statunitense. La privazione dei diritti civili e la persecuzione subìte in Germania a partire dal 1933 a causa delle sue origini ebraiche, oltre alla sua breve carcerazione, contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime nazista le ritirò la cittadinanza nel 1937; Hannah Arendt rimase quindi apolide fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza statunitense. Lavorò come giornalista e docente universitaria e pubblicò opere importanti di filosofia politica. Rifiutò sempre di essere categorizzata come filosofa, preferì che la sua opera fosse descritta come teoria politica invece che come filosofia politica.

Vittoria Franco: “Dalle origini del totalitarismo alla Banalità del male”

Hannah Arendt finisce di scrivere Le origini del totalitarismo nel 1949. Nelle 3 parti di cui l’opera si compone ricostruisce processi storici, ma ne emergono importantissime indicazioni di teoria politica. (…)
La banalità del male è invece del 1963. Siamo all’indomani della celebrazione del processo al nazista Adolf Eichmann, colui che aveva organizzato la deportazione degli ebrei. Hannah Arendt seguì il processo, che si svolse a Gerusalemme nel 1961, come corrispondente della rivista americana The New Yorker. È noto che lo scritto suscitò molte polemiche fra gli intellettuali ebrei e nel mondo ebraico in generale sia per alcuni accenni a episodi di collaborazionismo sia per l’espressione banalità del male.

La mia esposizione si svolgerà in 3 parti principali: cercare di capire cos’è il totalitarismo per Hannah Arendt; il problema del male assoluto; gli antidoti al male. Sono 3 questioni che la tormenteranno per tutta la vita. Cerca risposte a una catena di domande: come sono stati possibili Auschwitz, la Shoah, lo sterminio degli ebrei? Com’è stato possibile che valori e principi in base ai quali gli uomini distinguevano il bene dal male e che sembravano eterni, si siano dissolti come neve al sole e siano crollati in un sol colpo? Com’è potuto accadere che il nazismo producesse un collasso morale così diffuso nella «rispettabile» società europea e che la morale si afflosciasse come un contenitore vuoto? E ancora: dato il collasso dei principi morali tradizionali, qual è il metro di misura per giudicare crimini «senza precedenti» come quelli compiuti dai nazisti? Come costruire antidoti?

Il regime totalitario, un inedito nella storia
Nella descrizione del totalitarismo, la prima cosa che Arendt evidenzia è il fatto che il regime totalitario rappresenta una forma assolutamente inedita nella storia, è un novum rispetto ad altri regimi autoritari come la tirannide o la dittatura. È una forma di potere pervasivo, che si estende a tutti gli ambiti della vita sociale, non solo a quelli politici. Mira a non lasciare spazi di iniziativa, di azione individuale e di relazione fra gli individui; si basa sul loro isolamento dentro la dimensione della massa. La massa è informe, tende a diventare sempre più un tutto unico; in essa gli individui scompaiono. È come se il terrore «totale» premesse gli uomini uno contro l’altro distruggendo lo spazio ideale che deve esserci fra gli uomini e che non può essere soppresso perché è garanzia della possibilità di ciascuno di sviluppare la sua personalità e individualità. (…)

Il terrore arbitrario vuole vittime innocenti
La differenza fondamentale del regime totalitario rispetto ad altri regimi autoritari consiste nel fatto che esso aspira al dominio totale dell’uomo, fino alla distruzione dell’essere uomo: «è l’unica forma di governo con cui la coesistenza non è possibile». Un’altra caratteristica è il ricorso al terrore, anche in questo caso in una forma diversa dai regimi tirannici tradizionali, poiché nei regimi totalitari il terrore non viene più usato soltanto come un mezzo per intimidire e liquidare gli avversari, ma come uno strumento permanente con cui governare masse assolutamente obbedienti. La conseguenza è che il terrore moderno non aspetta la provocazione degli oppositori per colpire; le sue vittime sono perfettamente innocenti e i persecutori lo sanno. Nell’esercizio del terrore vige un’assoluta arbitrarietà ovvero – ancora peggio – vige una logica «insensata», artificiosa, che non ha nulla a che fare con la realtà dei «cinque sensi», dei fatti accertabili: questa logica è l’ideologia. L’ideologia indica una situazione in cui il confine fra realtà e finzione non è più accertabile psicologicamente. (…)

I campi di concentramento laboratori del dominio totale
Il totalitarismo presume che sia possibile «trasformare la natura dell’uomo» per poterla plasmare. Dentro questa ideologia si fa strada quella «mostruosa illimitata sperimentazione del possibile» che sono i campi di concentramento, i quali diventano laboratori dell’esperimento di dominio totale sull’uomo. Per Hannah Arendt, i lager sono parte integrante del regime totalitario e della sua ideologia. Essi aprono l’abisso del tutto è possibile, come aveva scritto David Rousset, sopravvissuto e testimone dei campi di concentramento. Celebre la sua frase che Arendt pone a esergo: «Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile». Rousset sosteneva che coi campi di concentramento e poi con lo sterminio si passa dal nichilista «tutto è permesso» al «tutto è possibile». (…) Nel «tutto è possibile» viene a saltare il riconoscimento di ogni vincolo, di ogni limite. Siamo oltre. Quando l’impossibile è stato reso possibile, è sorto il male radicale, assoluto, cioè sciolto dai limiti che la civiltà umana si è via via dati nella storia e che pensavamo acquisiti una volta per sempre. E i campi di concentramento sono l’essenza del male assoluto giacché in essi gli uomini sono diventati tutti egualmente superflui. Male assoluto è quel qualcosa di irrimediabile, che non si può perdonare, ma che non si può neanche punire, per mancanza di regole di riferimento, essendo un’offesa recata non solo alla comunità, ma all’«ordine del mondo in quanto tale». È come un’erbaccia che non si può fare altro che estirpare. (…) Si mirava alla costruzione di «cadaveri viventi» attraverso un triplice passaggio verso il dominio totale: l’uccisione del soggetto di diritto con la negazione dei diritti umani fondamentali; l’uccisione della personalità morale; l’uccisione dell’individualità.
Questa uccisione in tre mosse è incarnata nella figura del musulmano, descritto da Primo Levi come colui nella cui immagine si può racchiudere tutto il male del nostro tempo. (…) Esso segna la soglia tra l’uomo e il non uomo e il campo è per eccellenza il suo luogo. L’affermazione del dominio totale richiede di sancire l’eguale insignificanza degli esseri umani privandoli dell’ambiente vitale, cioè l’appartenenza a un mondo comune. Arendt lega la comparsa del «male radicale» proprio a questa esperienza di sradicamento, di perdita dello spazio mondano, di superfluità degli uomini nel mondo. E per converso, l’esaltazione della dignità umana viene collegata col radicamento, con la possibilità di agire nel mondo comune. (…)

Pensare e dialogare vero antidoto al male estremo
Nella Banalità del male rinuncia all’espressione «male radicale», che poteva essere equivocata come male radicato nella natura umana e dunque inestirpabile, e sostiene che il male è «banale». Come arriva a questa conclusione? Durante il processo studia la personalità di Eichmann e trova che più che una persona malvagia sia un uomo senza capacità di pensare. E fa coincidere il male banale con l’assenza di pensiero e con la rinuncia all’esercizio della facoltà di giudizio. (…)
Il male banale è quello compiuto dal «chiunque non malvagio che nel suo comportamento non è mosso da ragioni particolari e proprio per questo è capace del male infinito». Incapacità di pensare» equivale a incapacità di porsi la domanda: «Potrei vivere con me stesso se compissi questa azione?». (…) Arendt attribuisce insomma al pensiero una «funzione etica», stabilendo un rapporto diretto fra l’incapacità di pensare e il male e, viceversa, fra l’esercizio della facoltà di pensare e il bene.
Dunque, esercitare la facoltà di giudizio implica la facoltà di pensare, di mettersi al posto degli altri, di dialogare con se stessi, di essere due in uno. È tale insieme di facoltà che costituisce il vero antidoto al male estremo. Esso, insieme con la responsabilità, diventa il perno di un nuovo progetto etico. L’altro antidoto è la preservazione del mondo comune nel quale gli uomini al plurale appaiono e agiscono nella pluralità degli sguardi sul mondo.

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